IL LAVORO di GRUPPO M.Sberna - agosto 2008
Premessa

Le riflessioni che seguono sono ispirate da un'esperienza di formazione che viene citata nel testo per meglio spiegare quanto è successo. Non vengono quindi esaminate tutte le dinamiche ed i processi tipici di un gruppo operativo, ma alcuni di quelli osservati concretamente, frutto della sensibilità e degli interessi dei partecipanti di un gruppo, i quali sperimentavano in generale per la prima volta la metodologia formativa del T-group e dei suoi derivati.

L'occasione è un laboratorio di sensibilizzazione al lavoro di gruppo (LAB) nel quale sono coinvolte una trentina di persone, suddivise in tre gruppi.
Il LAB ha le seguenti caratteristiche:
- prevede la compresenza di più gruppi e dunque di un numero elevato di partecipanti che vengono suddivisi; i gruppi interagiscono fra loro e danno origine nel loro complesso ad un macro-gruppo con le caratteristiche di una comunità, a causa delle diversifcazioni interne;
- utilizza l'autocentratura, metodologia del T-group che prevede la concentrazione sul "noi, qui ed ora", cioè del gruppo su se stesso, in quel luogo ed in quel momento;
- introduce una simulazione, cioè una sorta di esercitazione che si basa sulla realizzazione di un compito "come se.." e che crea una analogia con la realtà concreta dei partecipanti, come accade per esempio in molti giochi che hanno come obiettivo qualche tipo di apprendimento. Il contenuto nel LAB ispiratore delle riflessioni che seguono richiedeva l'individuazione di alcuni parametri di osservazione (5 per la precisione) per rilevare i caratteri fondamentali di una tribù sconosciuta.

GRUPPO COUSIN

Nove persone, di cui uno solo è maschio, più il conduttore anch’esso femmina. Situazione difficile, ma tutti i gruppi si trovano alla pari rispetto a questa variabile e hanno in comune anche altro: l’eterogeneità delle professioni dei partecipanti – medico, infermieri, assistenti sociali, educatori, amministrativi, informatici; la provenienza dalla stessa organizzazione lavorativa; il settore di lavoro con la mansione di vigilanza e controllo; il territorio di appartenenza geografica; il livello di conoscenza interpersonale, con alcuni più ricco e profondo, con altri superficiale fino a limitarsi al solo nome o alla fisionomia fisica; l’eterogenea frequenza ad attività formative in senso classico. I tre gruppi che partecipano al laboratorio sono fra loro omogenei ed eterogenei al loro interno.
Un gruppo "cousin", dunque. Il che rende difficile un percorso formativo che si propone apprendimenti nell’area delle capacità psicologiche e più specificamente in quelle competenze che riguardano il lavoro di gruppo.

Il principale problema di un tale gruppo in situazioni di apprendimento, è la limitazione della libertà, elemento essenziale per imparare se il metodo utilizzato, come in questo caso, si basa sulla partecipazione diretta ed attiva e sull'esperienza emotiva. La restrizione deriva principalmente dalla conoscenza - anche superficiale - delle altre persone: nessuno vuole far vedere agli altri le proprie difficoltà, gli errori che commette, i comportamenti inadeguati, ecc. Esiste dunque una sorta di contraddizione di partenza, perché l'apprendimento di competenze psicologiche pone per definizione "il discente" in situazioni a rischio di errore che potranno essere superate attraverso l'aiuto dei membri del gruppo, delle loro osservazioni e dei loro suggerimenti.
Razionalmente tutti accettano la situazione e sono alla pari. Ma emotivamente non è così perché le persone sono fra loro diverse ed il loro percorso di vita ha sviluppato sensibilità e aspetti della personalità che possono facilitare o ostacolare l'esperienza formativa. A questo si può aggiungere un ulteriore elemento, questa volta oggettivo, che può trasformarsi in un vantaggio: la posizione occupata nell'organizzazione lavorativa. Così qualcuno è più coraggioso, dunque più attivo; e qualcuno di fronte a questi comportamenti si fa più timido fino a volte ad immobilizzarsi del tutto.
Ne deriva che è necessaria molta più energia per fare un'azione qualsiasi di quanta ne sarebbe richiesta in una situazione "normale", intendendo con questo concetto un gruppo costituito da persone fra loro sconosciute.

Un ulteriore elemento di difficoltà è rappresentato dalla scarsa eterogeneità nella composizione del gruppo relativamente al genere dei membri. La condizione ottimale prevede un equilibrio numerico fra uomini e donne: è la differenza più evidente ed è quella che risulta più facilmente stimolante delle relazioni piuttosto che "respingente", forse per com'è la natura umana, per il divertimento insito nel gioco della seduzione, per la complementarietà dei comportamenti e dei processi di pensiero. La competizione reciproca, che pure esiste, è produttiva anziché distruttiva, come accade nei gruppi omogenei per sesso. Spesso i gruppi femminili - soprattutto in questi ultimi lustri - oltre che competitivi, conflittuali, distruttivi, sono diventati piuttosto violenti ed a volte sono caratterizzati da azioni di vera cattiveria. La collaborazione fra donne è piuttosto rara e superficiale.
Anche i gruppi di soli uomini hanno dei limiti: più razionali, poco conflittuali e poco emotivi, più prevedibili nei comportamenti.

Quando la formazione viene realizzata all'interno di un'organizzazione piccola o media o di un settore di una di grandi dimensioni, quasi sempre si presentano questi problemi nella costituzione dei gruppi. In tale situazione, la soluzione ottimale sarebbe quella di offrire occasioni di formazione all'esterno dell'azienda. Ma questo spesso genera altri problemi, non ultimo quello economico. O, ancora più importante, impedisce che si possa "lavorare" per creare équipe di lavoro che possano poi mantenersi successivamente alla formazione e che siano funzionali dal punto di vista operativo e soddisfacenti sul piano emotivo.
Benchè di impostazione diversa, gli esperimenti di Elton Mayo hanno dimostrato l'importanza, anche in termini produttivi, del gruppo di lavoro.

Dunque il gruppo cousin è una dignitosa mediazione che, tenendo conto di tutti i vincoli, può consentire soddisfacenti apprendimenti, purchè da un lato i partecipanti si impegnino a rispettare il "principio di riservatezza" (non parlare extra-aula di ciò che in essa accade o, se si parla, non fare alcun riferimento alle persone) e dall'altro si fidino dei formatori e ne accettino le metodologie.

IL SETTING

In questi ultimi anni la formazione ha subito sempre nuove limitazioni dovute a "problemi tecnici" (poco di tutto: tempo, soldi, spazi, ecc.) ed anche alla scomparsa del desiderio di apprendere. Così capita che chi decide in merito ai percorsi formativi sia il primo a ritenere alcune modalità inutili, mentre a loro volta i formatori, soprattutto desiderosi di lavorare, colludono con queste posizioni anziché pretendere le condizioni minime per una buona qualità dell'intervento.

Il malcostume dilagante, con consulenti strapagati e distribuiti come il prezzemolo anche dove non sono necessari, e la scarsa professionalità di molti che in realtà non sono competenti della specialità per cui si propongono, fanno il resto.

Raramente si incontrano dirigenti consapevoli e rispettosi delle aree di azione dei professionisti che coinvolgono. Come in questo caso. La nostra è dunque una situazione fortunata, in cui i compromessi sono stati minimi ed effettivamente dovuti ad oggettivi problemi e difficoltà. Questo comportamento ha sottolineato l'importanza data alla formazione e dunque ha favorito una buona percezione anche nei partecipanti che fin dai colloqui esplorativi hanno visto la proposta come un'occasione importante.

Dunque, a cosa si può rinunciare, fra le variabili essenziali per un percorso formativo corretto?

Alla sede esterna rispetto al posto di lavoro. I partecipanti devono trovarsi in un luogo che favorisca la concentrazione sull'attività formativa ed insieme non consenta materialmente "fughe" nel proprio ufficio a svolgere compiti improrogabili su richiesta del proprio superiore o del proprio Super Ego, ma in realtà per evitare che l'emozione e le riflessioni tocchino troppo nel profondo e scalfiscano un equilibrio magari conquistato a caro prezzo. In più una sede fuori dall'azienda mette tutti i partecipanti alla pari: non c'è nessuno che conosce il luogo perché quotidianamente ci lavora, né qualcuno che si sente ospite e si muove con circospezione.
Infine, qualsiasi cosa succeda, gli unici ad esserne a conoscenza sono i partecipanti (tenuti alla riservatezza), o estranei che non avranno l'opportunità di fare pettegolezzi sulla questione. Dunque c'è un ulteriore elemento a favore della libertà di espressione individuale.
Nel caso questa opzione non sia possibile, occorre fare in modo che la scelta sia equilibrata in rapporto a vantaggi & svantaggi per i partecipanti. Per esempio: la sede di norma usata per fare formazione o una sede "itinerante" che si sposta a turno nei luoghi dove i partecipanti lavorano, purchè rispetti le condizioni minime necessarie.

Un altro elemento importante è la costanza della sede, intesa come aula di lavoro. Proprio per creare familiarità e facilitare il sentimento di appartenenza, la stanza dove si svolge l'attività formativa dovrebbe rimanere sempre la stessa. Nei casi di formazione con incontri periodici, la stanza sarà probabilmente usata anche da altri. E' importante in ogni caso che vi rimangano i "segni" delle attività svolte, magari chiusi in un armadio da cui riemergono per la nuova lezione: lavagne a fogli mobili, pennarelli e cartoncini, nastro adesivo, dispense e elaborati del gruppo in formazione, ecc. Ma anche attrezzature e supporti tecnici come l'ormai irrinunciabile "lap top" con annesso videoproiettore.
Se proprio occorre rinunciare, le motivazioni non devono essere squalificanti del percorso formativo, con cui anzi devono trovare qualche collegamento. Per esempio, quando siano previsti tipi di attività diversi, ed anche aggregazioni di partecipanti con altri criteri e a volte in quantità differenti, è possibile e plausibile che l'aula cambi: le variazioni seguono una logica spiegabile e congruente, che - in questo caso - può tenere conto delle sedi di lavoro dei partecipanti.

Per alcuni seminari, infine, è necessaria la residenzialità, nel senso che i partecipanti devono rimanere nel luogo di svolgimento dell'attività per tutta la sua durata, anche per mangiare e dormire. Una organizzazione, difficilmente è dotata di una struttura in grado di funzionare come "foresteria" ed insieme di essere abbastanza isolata da consentire il raccoglimento e la concentrazione utili all'apprendimento. Normalmente i seminari di sensibilizzazione - per i quali è richiesto un setting con queste caratteristiche - sono realizzati in strutture alberghiere più o meno lussuose e lontane dai luoghi di lavoro e di vita dei partecipanti.
Una tale soluzione è molto costosa economicamente, e richiede una particolare contrattazione con i partecipanti che dovrebbero essere liberi di scegliere se aderire o no e dovrebbero avere un qualche riconoscimento per il tempo extra lavorativo che utilizzano. Un tempo la formazione stessa sarebbe stata l'incentivo più significativo, perché non pagata dal partecipante e per lui opportunità di miglioramento di carriera e di condizioni di lavoro oltre che di crescita personale e professionale. Questo accadeva quando la formazione era conseguenza dell'interesse e del desiderio di apprendere del partecipante. Ben diverso è oggi, tempo in cui la formazione è intesa come aggiornamento e obbligatoria per il mantenimento del posto di lavoro.

Una mediazione onorevole richiede:

  • luoghi esterni a quelli lavorativi per lo svolgimento dell'attività, anche se individuati nello stesso comune sede dell'azienda;
  • che tutti i partecipanti restino insieme per tutta la giornata di formazione, dal suo inizio alla conclusione, e che abbiano la possibilità di mangiare nello stesso luogo e insieme;
  • l'impegno da parte di tutti i partecipanti di limitare il più possibile distrazioni derivanti dal lavoro e dal rientro in famiglia.

Tutto questo non impedisce al partecipante di non rispettare le regole, cosa che può accadere anche in un hotel a 1000 km da casa, ad ulteriore garanzia del rispetto delle libertà individuale.

DONO & RECIPROCITA’

Il processo di socializzazione, facilitato dal LAB, ha introdotto delle variazioni nella situazione dei partecipanti, ma non sempre in senso positivo. Per esempio è capitato fra chi aveva una relazione interpersonale collaudata, di scoprire aspetti dell'altro fino a quel momento ignoti e che risultavano sorprendenti ed inattesi. Lo stesso rapporto che si riteneva solido, sicuro, privo di sorprese, in qualche caso è stato scosso dall’osservazione di comportamenti impensati o percepiti come spiacevoli. La sorpresa derivava dall'aver dato per scontato che ciò che si conosceva dell'altro fosse esaustivo delle caratteristiche della persona e non una parte dell’intero che di fatto era molto più ricco e variegato.
La metodologia del seminario, per la sua particolarità "spiazzante" e per la sua caratteristica di novità per gli utenti, favoriva i comportamenti spontanei. Anche nei casi in cui le difese dei partecipanti agivano attraverso la censura ed il silenzio, in realtà presentavano di ciascuno un profilo marcato e significativo, che influenzava le relazioni interpersonali, in particolare già esistenti.

Questa sorta di reciproca delusione delle aspettative, originata dai comportamenti assunti da ciascuno fin dall’inizio del LAB, è diventata più visibile concretamente nelle fasi conclusive del lavoro di gruppo che richiedevano una presa di decisione. I partecipanti avevano posizioni fra loro diverse, in alcuni casi radicalmente. La presunzione di alcuni, che in genere hanno preso posizione per primi, è stata che un gesto generoso avrebbe facilitato l’accordo. Così essi si sono dichiarati a favore di scelte che erano di mediazione o sostenute in precedenza da altri con i quali avevano un legame affettivo, rinunciando spontaneamente al convincimento per il quale avevano lottato fino a quel momento. Si trattava dunque di un dono, e –come tale- di un gesto disinteressato.
L’esperienza concreta della mancata adesione da parte degli altri alla stessa filosofia, ha evidenziato l'equivoco: non si trattava di dono, bensì di scambio, transazione, "do ut des", comportamento interessato. Il donatore aveva considerato ovvio che il suo gesto suscitasse un comportamento analogo negli altri. E la delusione ha originato un conflitto con chi non ricambiava il dono!

Le ragioni possono essere diverse. Innanzi tutto, una scarsa consapevolezza (finta o effettiva) del significato del proprio gesto. Secondariamente la motivazione sottostante al gesto, e cioè un tentativo mistificato di influenzamento del comportamento altrui. Inoltre la fragilità del rapporto interpersonale che non consentiva una trattativa aperta e franca con cui – magari attraverso un conflitto o una strategia di negoziazione – si sarebbe potuto raggiungere un obiettivo condiviso.
Infine, le sfaccettature del processo di comunicazione: dalla modalità, al contenuto, al codice usato, all’espressività verbale e non verbale.
La "scoperta" a posteriori della scarsa funzionalità dell’operazione in termini di risultato, ha fatto emergere il problema attraverso un disappunto istintivo, che proprio per questa sua immediatezza non è stato censurato.
Questo "scoppio" ha modificato lo scambio fra le persone coinvolte che non hanno più potuto ignorare la realtà: non si può dare niente per scontato.

"Episodi" come quelli descritti, si osservano frequentemente nei gruppi, persino in quelli composti da persone fra loro del tutto sconosciute. La società in cui viviamo, le convenzioni tipiche della nostra cultura, la forte spinta all'omologazione, determinano delle aspettative nei confronti dei comportamenti altrui, benché ingiustificate o comunque non suffragate da alcuna motivazione. Spesso si tratta di comportamenti superficiali, adottati per convenienza e non perché corrispondenti a sentimenti e convinzioni effettive.

La formazione di gruppo si propone di vitalizzare un livello più ricco e profondo di relazioni interpersonali che, proprio per questo, sono più sincere e genuine. Maggiormente corrispondenti al vero sentire della persona che, aumentando la socializzazione e la consapevolezza di sé, aumenta il grado di autostima e di sicurezza e tende ad esprimere ciò che effettivamente pensa. Purtroppo non sempre l'autenticità va d'accordo con la diplomazia, per lo meno nei contenuti. Inoltre può accadere di accorgersi che, a ben pensarci, ciò di cui pareva non importarci è invece per noi significativo ed a volte irrinunciabile. Ne consegue che le aspettative degli altri rimangono deluse perché il nostro comportamento è differente dalle previsioni o addirittura del tutto contrario a quello adottato in precedenza.

Va detto che ognuno ha diritto a cambiare quando, quanto e come vuole e che non sempre è necessario spiegare perché accade o trovare delle giustificazioni. Fa parte dell'apprendimento e ne è una conseguenza diretta. Dunque ci si dovrebbe stupire se chi partecipa ad un'attività formativa resta "fermo" sulle posizioni di partenza. In più attraverso la formazione si possono conoscere le reazioni che si hanno ai nuovi comportamenti ed imparare ad utilizzare le strategie più funzionali ai propri obiettivi.

Le differenti situazioni, dunque, vanno affrontate a viso aperto se si ha l’intenzione di raggiungere un risultato ben definito? Ma, chissà, forse..... non c’è strategia giusta e in grado di garantire risultati attesi. Alcuni comportamenti sono più premianti di altri, ma non esistono "ricette" che producano di norma come effetto ciò che noi vogliamo. Ed è questo l’apprendimento importante: le nostre azioni devono essere consapevoli , considerando di esse tutti gli aspetti, le sfaccettature e le reazioni che possono suscitare nei destinatari o anche semplicemente negli "spettatori". Agire significa assumere dei rischi. Apprendere significa individuare, fra quelli possibili, i comportamenti più funzionali ai nostri scopi ed essere in grado di applicarli ai contesti che via via ci si presentano.

GERARCHIA & INFLUENZAMENTO

I membri di un gruppo hanno posizioni e potere diversi che si evidenziano col passare del tempo ed in relazione agli eventi che ne caratterizzano la vita e l’evoluzione. La personalità con le sue sfaccettature è il primo elemento che contribuisce a definire, da un lato, ed a consentire l’identificazione dell’individuo, dall’altro. Il passaggio da un insieme di individui sconosciuti fra loro ad un gruppo, è cadenzato da dinamiche che sono costanti nella tipologia, ma che si diversificano proprio in rapporto alle caratteristiche personali dei membri del gruppo. Chi è più spigliato, aperto, coraggioso, di solito affronta la situazione nuova senza lasciarsi frenare o ostacolare dal timore di sbagliare o dalla paura di rimanere coinvolto in qualche cosa di spiacevole, imbarazzante, doloroso. Chi è timido si comporta in modo più guardingo e prudente. Così, un po’ per volta si evidenziano i ruoli di ciascuno, proporzionati con il rischio assunto e la visibilità conquistata.

Tutto questo avviene più facilmente in assenza di ulteriori informazioni, che riguardano l’extra-gruppo, e cioè la vita personale e quella professionale.
Nel nostro LAB, i partecipanti hanno invece su ciascuno degli altri informazioni che derivano dall’ambiente di lavoro e ne sono influenzati grandemente, in maniera quasi totalmente indipendente dai comportamenti assunti nell’attività del seminario.
Il principio della subordinazione all’autorità è tipico delle organizzazioni verticistiche-piramidali, dove alcuni comandano su altri in forza delle posizioni che occupano nell’organizzazione, nell’impresa, nell’istituzione. Le modalità di gestione del proprio potere possono essere differenti.
Il comportamento è la risultante dell’intreccio fra tre elementi principali: la personalità, il ruolo ed il contesto che ad esso dà significato e valore. Per fare un esempio, l’Amministratore Delegato di una multinazionale ad una riunione del Consiglio di Amministrazione si comporta diversamente da quando agisce come padre di famiglia. E’ sempre la stessa persona, ha in entrambi i casi responsabilità e compiti di cui rispondere, ma i contesti differenti richiedono l’utilizzo di competenze e capacità psicologiche differenti.

Il gruppo del LAB si trova in una situazione simile, con un’aggravante: la formazione è interna all’organizzazione. Così il grado di "distanza" fra un luogo -l’ambiente di lavoro- e l’altro -il gruppo- è determinato dal contratto iniziale che, all'avvio della formazione, ha posto alcune regole e convenzioni. Fra esse non è possibile inserire la cancellazione della realtà. In altre parole non si può chiedere di considerare tutti i partecipanti uguali: è un impegno che anche preso non è possibile mantenere.
L’aspetto curioso della situazione formativa sta nella connessione fra ruolo gerarchico oggettivo e grado di conoscenza interpersonale. I membri del gruppo che non conoscono direttamente né hanno lavorato con chi ha nell’organizzazione reale una posizione gerarchicamente superiore, hanno nei loro confronti un atteggiamento deferente ed un comportamento rispettoso al punto da essere condizionati nelle decisioni che prendono. Di solito sono persone in posizioni di subalternità. Chi invece è ben socializzato, e magari è anche in un gradino intermedio della scala gerarchica, non teme di confrontarsi con gli altri in termini di potere. Infine, chi si trova al vertice della piramide nel contesto gruppale, pare vivere con imbarazzo questa situazione. Come se fosse incerto sul comportamento da tenere: propositivo e direttivo -come fanno i capi ed i responsabili; possibilista ed esplorativo -come chi sente di avere fra i suoi compiti anche la crescita e lo sviluppo degli altri; passivo e prudente -quasi un gregario- forte della convinzione che cambiando il contesto tutto si modifica.

In un gruppo "cousin", come quello descritto, che sta affrontando un percorso formativo, la gerarchia è data da elementi "oggettivi", come titoli di studio e professioni che stabiliscono chi vale di più ed ha più importanza in relazione anche al prestigio normalmente riconosciuto dalla società. Per esempio, il medico è più importante dell’infermiere, ma anche del sociologo, dell’educatore e dell’assistente sociale nonostante tutti questi titoli richiedano la frequenza ad una facoltà universitaria. Tecnici e amministrativi si contendono gli ultimi posti in graduatoria, soprattutto perché -in uno scenario globale a carattere immateriale- si occupano di questioni concrete.
Nell’organizzazione alcuni ruoli confermano la graduatoria per professioni: il medico -che coordina il gruppo di lavoro distrettuale- mantiene la posizione ed il prestigio.
A volte però anche nell’ambiente di lavoro le situazioni sono un po’ ambigue e, cambiando contesto, lo stesso medico deve fare riferimento al programmatore informatico che possiede il sapere di un campo nuovo e poco frequentato.

Dunque nel gruppo esiste una gerarchia che varia a seconda degli eventi e del tipo di argomento trattato. Lo stereotipo che farebbe del medico il capo riconosciuto a cui sottomettersi, si scontra con il potere del programmatore che ragiona con logica lineare e funzionale alla complessità dei problemi da un lato e della macchina-computer dall’altro.

Nessun gruppo del LAB "ricostruiva" una piramide gerarchica effettivamente esistente nell’azienda e dunque nessuno si sarebbe dovuto aspettare di gestire il suo normale ruolo con lo stesso grado di potere, sia in termini di comando che di sottomissione. Eppure le aspettative, con qualche accentuazione per i partecipanti abituati a "contare", non erano diverse che nella normale vita lavorativa. In pratica ciascuno teneva conto dell’esistente e degli stereotipi, senza considerare che, rispetto al compito assegnato al gruppo, tutti erano alla pari e, se mai, dovevano cercare di utilizzare le loro competenze e le loro capacità per eseguirlo. L’influenza che tutto questo esercitava su ciascuno si evidenziava nella qualità e quantità degli interventi verbali: chi si riteneva posizionato alla base della piramide parlava poco, soprattutto per fare commenti, considerazioni e di rado per fare proposte o per scherarsi a favore o contro qualcosa o qualcuno. Chi stava nei gradini più alti della scala gerarchica, riusciva a presentare la propria idea ma non trovava un seguito. L’influenzamento funzionava maggiormente in termini restrittivi, attivando la censura reciproca ed un sottile gioco di potere caratterizzato da una competizione strisciante il cui senso era "se non vinco io, non vinci neppure tu!".

Va ricordato che il gruppo era praticamente femminile, avendo fra i membri un solo maschio. Data la situazione, questa è certamente una condizione aggravante. Le donne sono in genere più competitive fra loro e anche in questo caso hanno perso di vista il traguardo da raggiungere.

Dove si evidenzia questo fenomeno c'è anche un altro filtro per interpretarlo: la questione della leadership. Nei gruppi di formazione, la gerarchia preesistente non è riconosciuta e quindi non ha potere o perché i partecipanti non si conoscono fra loro o per convenzione. Perciò il capo non è "dato" e addirittura non esiste per lo meno in questa definizione. Esistono invece diversi tipi di leaders (o almeno uno), che si evidenziano quando l'aggregazione si trasforma in vero e proprio gruppo ed in risposta ai bisogni dello stesso. Il profilo del capo non comprende le stesse capacità psicologiche del profilo del leader. Addirittura, un capo può non avere le competenze necessarie, ma il ruolo gli conferisce la possibilità di agire in modo congruente. Sono molti gli esempi in questo senso: i sosia utilizzati da alcuni dittatori per evitare rischi alla propria vita, non sono "smascherati" dai cittadini.

La scarsa corrispondenza fra chi ha il ruolo di capo nella vita lavorativa e il ruolo di leader nella formazione, genera sorpresa e delusione. Le persone mature e con effettivo desiderio di imparare, fanno di questa scoperta e dell'esperienza conseguente un apprendimento prezioso, da utilizzare anche nell'area professionale. Chi è più incerto ed insicuro, si sente minacciato e di solito in queste situazioni, tende a personalizzare ed a scatenare conflitti che sono più spesso una lotta contro -e dunque sono distruttivi- piuttosto che una lotta "per" - indirizzati su qualche obiettivo da raggiungere effettivamente. A questi ultimi sfugge la via della collaborazione e della cooperazione che può rappresentare una accettabile mediazione fra essere il dominatore del gruppo o il gregario più insignificante.

La concentrazione su di sé spesso rende ottusi e ciechi rispetto al susseguirsi degli eventi del gruppo limitando grandemente l'apprendimento.

PROFESSIONALE e PERSONALE

Anche questo è un binomio molto frequente nelle esperienze di gruppo. Lo si incontra in particolare quando la formazione è fatta sul posto di lavoro o per motivi professionali.

Serve di solito in termini difensivi, quando si vuole dimostrare che ci si adatta a contesti diversi, che si è plastici e flessibili; che in un ambiente lavorativo non si può essere completamente sé stessi. Dunque per scusare e giustificare comportamenti che, soprattutto agli altri, paiono inadeguati alla situazione. Un altro motivo è il tentativo di razionalizzare il proprio comportamento, smorzando la pressione di qualcuno che vorrebbe farci agire diversamente e stimolare la nostra apertura.

Nel nostro LAB occorre considerare la reazione come coerente perché, quando il gruppo è "cousin", ciò che accade nel percorso formativo avrà ripercussioni nei rapporti interpersonali successivi. Manca in queste situazioni la totale libertà che dovrebbe caratterizzare ogni attività di sensibilizzazione. Mostrarsi come si è effettivamente o "scoprirsi" via via, lasciando emergere punti forti e limiti della propria personalità, può avere conseguenze nella quotidianità lavorativa; può modificare la percezione che gli altri hanno di noi. E se non modifica il comportamento altrui nei nostri confronti, basta che modifichi il nostro, producendo così - come dice K.Lewin - un cambiamento generale.

Nella formazione aziendale, il gruppo fa frequente riferimento al binomio personale-professionale perché si sente spinto a rapporti più profondi o almeno più significativi. L'analogia fra personale e professionale è più frequente in rapporto al tipo di lavoro che ha come utenti persone in situazioni di debolezza o di difficoltà. Com'è possibile offrire un servizio di qualità a persone sconosciute, se non si è in grado di relazionarsi con i colleghi?!?
Non si intende parlare di relazioni di amicizia. Essere "presenti" in ogni momento e cominciare collegando contenuti con emozioni ed espressività non è qualcosa che riusciamo a fare "a comando". Perché entri a far parte dei nostri comportamenti abituali, occorre che ne abbiamo avuto esperienza, e più di qualche volta.

Chi sceglie di fare percorsi di sensibilizzazione per migliorarsi indipendentemente dalla sua professione, in realtà non pensa di avere una doppia personalità, né comportamenti diametralmente opposti in contesti differenti. E’ pur vero che, secondo la definizione di K.Lewin (KL) il "campo" determina delle forze tipiche di quel particolare contesto/gruppo. Ciò non è in contraddizione con la convinzione dell’unicità della persona. Secondo KL, l’individuo ed il gruppo possono essere descritti topologicamente nello stesso modo, con la differenza che le regioni, nell’individuo sono costituite da caratteristiche di personalità e nel gruppo sono rappresentate dalle persone che lo compongono.

La dinamica fra le regioni dell’individuo è uguale a quella del gruppo. L’evoluzione del singolo è il risultato dell’allargarsi/restringersi delle sue regioni/caratteristiche. Nel gruppo l’individuo ritrova attraverso le altre persone, parti di sé che vengono sollecitate più efficacemente proprio perché il contesto fa da acceleratore. L’intenzionalità di un percorso formativo è ulteriormente stimolante. Ma questo processo si verifica in ogni situazione. Dunque il significato dell’affermazione "io quando lavoro sono diversa da quando sono in famiglia" rimanda all’uso di caratteristiche di personalità che si ritengono più adeguate al contesto, ma che coesistono accanto a quelle che si censurano in quell’occasione perché si ritengono inadatte. La persona rimane sempre la stessa e può decidere di modificare il suo comportamento usando altre parti di sé in risposta a nuove situazioni, a forti emozioni, ecc.

Questo vale "nel bene e nel male" cioè sia per gli aspetti di noi che ci piacciono che per quelli che detestiamo. Così è difficile che la mia apertura e socievolezza, tipiche del mio carattere, spariscano quando sono ad una riunione di lavoro. Magari non darò a tutti del "tu" o non li chiamerò col nome di battesimo; o eviterò di raccontare eventi della mia vita privata. Sarà però difficile nascondere il mio comportamento accogliente nei confronti degli altri, la mia capacità di ascolto, la mia tolleranza, ecc.

Perché allora nel gruppo le differenze di comportamento in campo professionale e nella vita privata sono oggetto di discussione? Forse si tratta di un’esplorazione finalizzata a verificare l’accettazione di modi di fare più familiari. Per convenzione, infatti, nei luoghi di lavoro i rapporti sono formali e rispettosi, escludono l’aspetto emotivo e qualsiasi forma di intimità che verrebbe percepita come intrusione o addirittura come una forma di pressione e di violenza. Ma, nonostante ciò, sentimenti ed emozioni albergano in ciascuno in rapporto alle relazioni interpersonali ed agli eventi che caratterizzano la quotidianità.

Nel caso del nostro LAB, l’età dei partecipanti (dai 25 ai 45 anni) e la quantità considerevole di tempo dedicato al lavoro, stimolano a ricercare nell’organizzazione aspetti gratificanti. Occorre però essere prudenti, sia per non essere fraintesi, sia per non spaventare, sia per arrivare ad una sorta di decisione condivisa, che dunque faccia da riferimento nella gestione dei rapporti e che insieme sia difensiva (se abbiamo deciso per una maggiore familiarità, non ti devi offendere se critico un tuo comportamento; non devi sbuffare se ti chiedo un consiglio o se ti chiedo troppo spesso -per te- aiuto in una mansione).

Ci potrebbe essere anche un’altra spiegazione al vezzo di continuare a distinguere fra fuori e dentro il lavoro: recuperare, attraverso un esterno immaginario, un’immagine diversa da quella visibile nel contesto professionale. Come a dire: "io quando lavoro mi attengo a certe regole; per questo sono pignola. Mi basta uscire dall’ufficio per diventare creativa, quasi un’artista un po’ pazza".

In entrambi i casi si tratta di una modalità difensiva, che denuncia l’incertezza a mettere in opera un comportamento che si considera inadatto. Dunque un certo grado di insicurezza ed un’autostima poco solida. Diversamente, infatti, le reazioni al mio comportamento mi diranno se esso è accettato o no; se può costituire un esempio e servire per la crescita e l’evoluzione di tutto il gruppo; ecc.

ESITO DELL'IMPRESA

Cosa volevamo ottenere in realtà da questo seminario di avvio di un consistente percorso formativo? L'obiettivo principale era quello di rendere evidente a tutti "lo stato dell'arte" del gruppo in modo che i suoi componenti ne diventassero consapevoli coscientemente. Un'attività formativa che intende sviluppare specifiche capacità psicologiche, e dunque stimolare e produrre un cambiamento, si presenta come una Ricerca-Intervento in cui i formatori sono solo i tecnici che fanno da supporto ad azioni svolte "in proprio" dai partecipanti presi come singoli o come gruppo. Sapere se ci sono problemi, quali sono, in che misura ci coinvolgono o ci vedono come protagonisti, serve come punto di partenza ed è già un considerevole cambiamento rispetto ad una situazione di ignoranza o di indifferenza.

Ogni volta mi stupisce constatare come l'analogia sia aderente alla realtà. Fin dall'inizio di un seminario, le regole di comportamento sono esplicite così come le condizioni di lavoro e l'obiettivo concreto che si vuole raggiungere. Parrebbe facile eseguire il compito assegnato. E invece non è così. I partecipanti non riescono a trovare una strategia di successo e quando per un caso fortunato trovano un accordo nel gruppo, non riescono a negoziare efficacemente con gli altri gruppi. Neppure per scommessa o per sfida nei confronti dello staff dei formatori.

Ma il seminario raggiunge sempre gli obiettivi formativi che riguardavano l'esplicitazione dei problemi esistenti, quelli che hanno impedito il lavoro operativo. Di solito le difficoltà più importanti in un analogo tipo di attività sono rappresentate da:

  • percezione di incertezza e di instabilità dell'ambiente di lavoro
  • modesta autostima dei partecipanti sia personale che professionale
  • diffidenza derivante da scarsa conoscenza degli altri partecipanti, ma anche nei confronti dei membri dello staff
  • comunicazione censurata
  • relazioni interpersonali carenti, o superficiali, o problematiche
  • preferenza per la manipolazione nelle situazioni decisorie
  • evitamento del conflitto aperto
  • difficoltà a lavorare in gruppo.

Come per l'uovo di Colombo (l'aneddoto riferisce che quando fu chiesto a Cristoforo Colombo di far stare "in piedi" un uovo, lui lo abbia fatto fracassandone il guscio): la procedura pare semplice, addirittura banale e forse persino un po' stupida. Ma la sua efficacia è innegabile.

Ma non sarebbe stato così anche per una partita di "Monopoli"?

E' vero, ci sono molti elementi di somiglianza. La maggiore differenza fra le due situazioni sta nell'imprevedibilità del "fattore umano" del partecipante che fa da materiale di gioco ,e che, incrociandosi con quello di altre 10/12 persone, produce situazioni in cui l'emozione nasce dal non sapere se gli "scoppi" si devono a bombe o a fuochi d'artificio.