Cap.6. Il gruppo come dispositivo
Estratto da Contessa G. "Psicologia di gruppo", Ed.LaScuola, BS, 1999


... Tutti i capitoli precedenti sono stati un tentativo di descrivere il gruppo, considerandolo un organismo con la sua fisiologia e le sue disfunzioni. Intendiamo col termine di “gruppo organismo” tutti quei gruppi che sono formati casualmente, o in base a criteri afferenti a bisogni esterni. Un gruppo di amici si forma sulla base di simpatie o prossimità. Un gruppo di insegnanti si forma sulla base di regole istituzionali. Un gruppo di tecnici si forma con criteri organizzativi. Ogni  gruppo-organismo è formato dalla casualità, o, più spesso, da bisogni del contesto. Questa regola di natalità è generale per ogni organismo vivente. Tutti gli esseri viventi, umani o no, nascono o per caso fortuito o per soddisfare istinti, esigenze, bisogni, desideri, progetti del sistema che li genera. Antico è lo sforzo di governare intenzionalmente l’agricoltura e la zootecnia, secondo principi di ottimizzazione. Relativamente nuova  invece, è la tendenza a generare organismi umani progettandoli sulla base dei loro interessi. E’ recente l’usanza di controllare la salute dei genitori prima del concepimento, modificandone gli stili di vita; di preparare un ambiente perinatale e neonatale funzionale al nascituro; di tenere conto della esistenza di fratelli. Mentre la tecnica ha avuto applicazione crescente verso la natura, è recente ed ancora controversa la sua applicazione nel campo delle aggregazioni umane. Paradossalmente, queste sono il soggetto meno toccato dalla tecnica: meno degli oggetti naturali e meno anche dei singoli individui, sui quali le tecniche mediche prima ed ora biologiche, sono applicate intensivamente. Gli unici sforzi di applicazione della tecnica alle aggregazioni umane sono quelli prodotti dalla scienza politica. Architettura costituzionale, ingegneria istituzionale, procedure elettorali, pratiche di buon governo sono le risposte tecniche ai problemi posti dalla politica, intesa però come città, Stato, massa. Pochissimo di tutto ciò è stato applicato finora alle micro aggregazioni umane: famiglie, piccoli gruppi, comunità locali. Come se questi soggetti fossero l’ultimo campo rimasto libero dalla tecnica.

E’ vero che la tecnica è giustamente guardata con sospetto per i suoi continui rischi di scivolamento verso la repressione e l’alienazione dell’umano. Il fatto è che il semplice rifiuto della tecnica, implica un ritorno ad un romantico primitivismo, la cui natura non è affatto più umana. La tecnica è nata come risposta alle carestie, alle malattie, ai disastri naturali. Il problema è governare la tecnica, controllarla, sottometterla alle esigenze umane, e non esserne governati, controllati e sottomessi. Il problema è anche la scelta fra le tecniche, più o meno artificiali, più o meno invasive, più o meno dense di effetti negativi secondari. Il ricorso, per esempio, alle tecniche di agricoltura biologica, piuttosto che alla chimica, non è un rifiuto della tecnica ma il privilegio di una tecnica sull’altra.   La zootecnia naturalistica non è meno tecnica della zootecnia chimica o biologica.

Le tecniche impiegate in agricoltura e zootecnia, ma anche in medicina,  risalgono agli albori della storia umana. Le tecniche applicate alla polis sono vecchie di almeno 2500 anni. Le tecniche di gestione della procreazione e della natalità sono di questo secolo, ma ormai diffusissime. Le tecniche di gruppo sono nate nella seconda metà del XX secolo e dunque sono meno note e diffuse. Non per questo sono meno utili. La nascita e la storia di un piccolo gruppo possono essere lasciati al caso, o rispondere alle esigenze del sistema di riferimento. In tal caso il gruppo avrà una storia casuale, si muoverà come un organismo con sue leggi e patologie, seguirà una propria traiettoria esistenziale. Oppure è possibile applicare tecniche apposite alla nascita ed alla vita del gruppo, finalizzate a favorirne un destino progettato. In tale caso il gruppo funziona come un dispositivo, un meccanismo, un sistema intenzionalmente orientato. Il che non significa determinare a priori le vicende del gruppo, la cui sovranità è insopprimibile. Significa applicare tecniche ad ogni fase del gruppo, adeguate a favorirne lo sviluppo in una direzione invece che in un'altra. Garantire la salute dei genitori equivale a dare al nascituro pre-condizioni ottimali, anche se ciò non significa determinarne il grado di salute o malattia per la vita. Considerare il gruppo un dispositivo equivale ad avviarlo e poi stimolarlo nel modo più funzionale ai suoi propri fini, invece che al caso o ai fini del contesto. D’altronde il ragionamento appare chiaro se applicato all’educazione o istruzione individuale. Una buona educazione è anche l’applicazione di tecniche intenzionali, il cui compito è di favorire il migliore sviluppo possibile del soggetto. Perché non considerare l’ipotesi che anche un gruppo come insieme possa avere bisogno di una educazione? Se il gruppo è un insieme autonomo, un soggetto, allora esso può essere lasciato nascere e crescere in modo “selvaggio”, come accade per alcuni (per fortuna pochi) neonati, oppure può essere creato e sviluppato con apposite tecniche, come accade per la maggioranza dei singoli. In tale caso il gruppo diventa simile al campo arato e seminato da un accorto contadino, piuttosto che  ad una selva o una giungla. Fra il campo e la selva, così come fra il gruppo organismo e il gruppo dispositivo, si collocano la tecnica e l’intenzione, con l’operatore che le esprime. Tecnica, intenzione e operatore che si frappongono fra il soggetto e il destino, il caso, la forza del contesto. Dare a un gruppo il carattere di dispositivo non significa negarne le valenze organismiche, che vengono solo addomesticate, orientate, finalizzate. Allo stesso modo che un individuo generato in modo responsabile ed educato con tecniche opportune, ha maggiori possibilità di uno lasciato al suo destino. La condizione di dispositivo è un’aggiunta, un arricchimento dell’organismo: laddove essa diventa sottrazione, depauperamento, alienazione significa che tecnica, intenzione o operatore sbagliano. E sbagliano non tanto per motivi etici, che non prendiamo in esame qui, quanto per motivi concreti: un gruppo ridotto a dispositivo meccanico non funziona né come gruppo né come dispositivo.

6.1. Bagaglio genetico, concepimento e nascita.

Il modo con cui il gruppo è formato e gli individui che sono chiamati a farne parte, rappresentano una sorta di bagaglio genetico del gruppo. I cromosomi familiari, il modo di concepimento,  la gravidanza, il parto sono elementi decisivi per il destino di un individuo, anche se la sua vita non sarà determinata in toto da essi. Come favorire la nascita di un gruppo con  la stessa cura e intenzionalità? Parlare del concepimento e della natalità di un gruppo può sembrare irriverente, visto che i gruppi di apprendimento e di lavoro sono solitamente composti da adulti, a volte molto preparati ed acculturati. In verità  ha scarsa rilevanza la maturità o esperienza dei singoli. Un gruppo è un organismo diverso dalla somma delle sue parti. Quindi un gruppo di anziani premi Nobel, ha gli stessi problemi di concepimento, nascita e crescita di uno di bambini.

Il primo problema riguarda il modo del concepimento, cioè il come ogni singolo si trova a far parte di un’ipotesi di gruppo nascente. La casualità riguarda solo i gruppi amicali, ed anche qui essa è più apparente che reale. Possiamo arrivare in un bar o ad una festa per caso, ma decidiamo di appartenere a quel gruppo per scelta. Nei gruppi di lavoro o di formazione, l’intenzionalità è più esplicita: i membri si accordano o vengono chiamati generalmente con un compito o un obiettivo dichiarato. In entrambi i casi la prima difficoltà è data dall’incoscienza, cioè dall’assenza di consapevolezza di ciò che richiede l’appartenenza ad un gruppo. E’ lo stesso genere di superficialità di chi concepisce un figlio, per caso o per errore. Spesso pensiamo che far parte di un gruppo significhi solo presenziare a qualche incontro, oppure mettersi in una situazione da cui potremo prendere qualcosa,  oppure ancora espletare un dovere sociale. Sono gli stessi tipi di atteggiamento che prendiamo di fronte a nuove relazioni interpersonali. Molti pensano si tratterà solo di scambi di convenevoli bene educati, chiacchiere e pettegolezzi, discorsi sul tempo,  oppure possibili vantaggi (se l’altro ha qualcosa che ci serve). Ci avviciniamo ad un gruppo con lo spirito di iniziare un viaggio verso il cambiamento, soltanto se chi ci invita riesce a farci percepire l’importanza e la responsabilità della adesione. La prima tecnica indispensabile alla creazione di un gruppo dispositivo è quella che riguarda il reclutamento. Il quale deve basarsi su un consenso attivo e consapevole. I membri del gruppo che si va a costituire devono essere informati su ogni risvolto dell’operazione, e devono esprimere il loro consenso responsabile. Tutto ciò sembra ovvio e semplice, ma è più raro di quanto si pensi. L’informazione è spesso oscura o incompleta o confusa. Può basarsi su un linguaggio incomprensibile o gergale (tecnico, filosofico, burocratico, ecc.). Oppure contenere qualche informazione, ma non altre: c’è l’ora di inizio ma non quella di conclusione; si parla della finalità del gruppo ma non degli obiettivi concreti; si annuncia un coordinatore o conduttore, ma non si dice chi sarà.  O anche dare informazioni contraddittorie. E’classico l’invito ad un gruppo, che prevede una fila di relazioni palesemente ostacolanti lo scambio e l’interazione. L’informazione però non basta, se non si può dimostrare che ha colpito il bersaglio. Occorre sincerarsi che gli invitati abbiano letto, compreso e accettato l’informazione inviata. E’ necessario cioè che ci sia una verifica dell’informazione attraverso la raccolta di un consenso consapevole, responsabile e attivo. Non si chiede mai di presenziare ad un gruppo di lavoro o di apprendimento, ma di partecipare, cioè di far parte, prendere parte, diventare parte attiva e dell’insieme. Allo stesso modo con cui non basta che il genitore sia semplicemente informato sui meccanismi del concepimento, ma si auspica che esista il suo consenso esplicito e responsabile. Nei gruppi di lavoro e di formazione, peggio della disinformazione è la mancanza di scelta libera e consapevole. Nei gruppi di lavoro prevalgono largamente i doveri istituzionali, le procedure organizzative, le norme giuridiche. Per la quali il Consiglio di Amministrazione deve riunirsi periodicamente; il Consiglio di Classe deve espletare alcuni compiti collegiali; l’équipe chirurgica deve operare come tale. Nei gruppi di formazione la cogenza dovrebbe essere bandita, ma è sempre più spesso la regola. Nelle Scuole c’è l’obbligo di frequenza, che perciò si tramuta nella progressiva frequenza di evasione. Nella formazione universitaria si adotta l’incentivo della promozione più facile per chi frequenta un gruppo di studio. Nei Corsi di formazione o aggiornamento per adulti “on the job”, la scelta è coartata dal capo. Nei Corsi del Fondo Sociale Europeo, oggi dilaganti, gli incentivi sono il danaro con cui si pagano i corsisti o le promesse dell’ente formativo che, se non trova i partecipanti, non viene finanziato. Insomma, molti gruppi di lavoro o di apprendimento, vengono concepiti come molti bambini: con il raggiro, il ricatto o la violenza vera e propria. La mancanza di un consenso libero e responsabile circa la partecipazione ad un gruppo, porta con sé un pregiudizio negativo per la nascita e la storia del gruppo, più o meno come nel caso di un concepimento indesiderato. Molto spesso le condizioni di partenza sono vincoli ineludibili: la scuola è dell’Obbligo per legge; il Consiglio di Classe è collegiale per legge; il tale partecipa ad un gruppo di formazione perché il capo l’ha spinto; il talaltro  perché ha bisogno della diaria. Il primo lavoro dell’operatore, basato su una intenzionalità e su tecniche appropriate, è quello di convertire il vincolo in possibilità; di trasformare il consenso manipolato, estorto o coatto in un consenso responsabile. In altre parole, l’operatore deve riuscire a trasformare una partecipazione basata sul caso, sul dovere, o su motivazioni eccentriche, in una fondata sulla scelta responsabile di apprendere qualcosa insieme ad altri.

Fa parte del concepimento di un gruppo anche l’ambiente nel quale esso è pensato e nasce. Come nel caso dei bambini. Un ambiente promiscuo, degradato, povero di stimoli; una famiglia nella quale i figli sono l’oggetto di transazioni conflittuali, competitive, ricattatorie o manipolative; un quartiere privo di servizi e ad alta densità delinquenziale: sono tutti elementi pregiudiziali di una sana crescita fisica e psichica. Nel caso di un gruppo la situazione è analoga. Gruppi concepiti all’interno di organizzazioni o istituzioni malate; gruppi nati con scopi diversi da quelli dichiarati; gruppi avviati senza alcun sostegno esterno: sono tutti destinati ad una vita più difficile.

I cromosomi del gruppo sono le personalità dei singoli chiamati a concepirli. Il concepimento responsabile di un bambino, si limita  oggi a garantire che i genitori non siano portatori di malattie ereditarie. Troviamo culturalmente grotteschi e disdicevoli i tentativi, già operati da qualcuno, di costruire bambini programmati geneticamente nel tipo di sesso, nel quoziente intellettivo, nel colore degli occhi o dei capelli. Tuttavia consideriamo accettabile che una simile programmazione avvenga sul piano culturale, nella scelta del partner. E’ diffusissima la discriminazione intenzionale del partner in base alla razza, la religione, il ceto sociale e il reddito. Anche se la corrente romantica dell’amore che supera tutto è largamente diffusa, esistono moltissimi casi di selezione del partner che, se non  esplicitamente, è implicitamente genetica. Normalmente, alla genetica dei gruppi viene dedicata pochissima attenzione. Poiché sappiamo da K.Lewin che il comportamento individuale è funzione del campo, oltre che della personalità, non si tratta di trovare i “soggetti giusti” per il gruppo. Questa idea ha accarezzato spesso le menti dei ricercatori, ed ancora oggi è molto popolare nella pubblicistica divulgativa, quando si parla del capo ideale, o del leader ideale o del partner ideale. Durante la Seconda Guerra Mondiale la USAF fece ricerche amplissime, nel tentativo di trovare personalità da leader (a somiglianza dei dittatori europei) cui affidare il comando dei cacciabombardieri per abbattere più giapponesi. Le risorse investite dimostrarono chiaramente che i soggetti ideali non esistono, in quanto, come Lewin aveva già dimostrato, il gruppo concreto richiede soggetti concreti con caratteristiche specifiche per quel gruppo. Il leader di un gruppo, può essere gregario in un altro contesto e capro espiatorio in un terzo. Ciò detto, non possiamo non ammettere che un gruppo  può avere una vita più facile o più difficile, se è

composto da singoli con determinate caratteristiche di personalità.  Non si tratta selezionare i soggetti da coinvolgere in base ad un quadro clinico delle loro personalità, ma di tenere conto di alcuni punti fermi di ordine generale.

·        La presenza, nel gruppo che nasce, di individui con relazioni  precedenti, è un ostacolo.

Se un gruppo che nasce è un nuovo organismo plurale con vita autonoma, è pregiudizievole che alla sua nascita sussistano legami che possano squilibrare l’equivalenza fra i membri. Già abbiamo visto che i pregiudizi vengono attivati anche senza alcuna conoscenza reale dei futuri compagni di gruppo. I pregiudizi saranno maggiori se due o più membri hanno legami precedenti sia positivi (fra coniugi, fidanzati, colleghi, amici, ecc.) sia negativi (con rancori, competizioni, giudizi svalutanti, ecc.). I membri che arrivano al gruppo con precedenti relazioni saranno portati a privilegiare queste rispetto a quelle nuove, attivabili nel gruppo. Spesso il gruppo sarà usato per dirimere questioni sospese fra i due individui con legami pregressi: come sa chiunque abbia assistito ad una lite coniugale durante una cena fra amici. Ma i rapporti precedenti non costituiscono solo un handicap per il gruppo. Gli stessi singoli, che trovano nel gruppo individui già noti, hanno una minore libertà espressiva perché ciò che diranno o faranno sarà decodificato in base ad un diverso contesto; o assumono maggior potere perché partono con alleanze già definite. Comunque non saranno liberi di vivere appieno la situazione del gruppo nascente. Le conoscenza pregresse sono ancora più ostacolanti se riguardano legami forti come quello fra diverse posizioni gerarchiche (capo-dipendente, medico-paziente, docente allievo), o quelli familiari (marito-moglie, genitore-figlio, fratello maggiore-minore). Tutto ciò crea ancora più confusione e difficoltà, quando le relazioni pregresse fra due o più membri non sono rese note agli altri. A volte esse vengono taciute per riservatezza, per timore di non mostrarsi imparziali nel gruppo, o perché la loro importanza emotiva viene inconsapevolmente sottovalutata. Il risultato però è che il gruppo non riesce a spiegarsi certi atteggiamenti o comportamenti e la sua insicurezza aumenta. Non vogliamo dire che sia impossibile far nasce un gruppo composto da alcuni membri già legati fra loro. Diciamo solo che questo fattore costituisce un handicap, va reso esplicito e deve essere gestito come tale. Esistono gruppi di formazione che sono ufficialmente formati da coppie, o nati da sotto-gruppi di singoli già legati fra loro, o gruppi che prevedono la presenza del capo formale. In tali casi, la loro specifica natura è dichiarata e consapevole e richiede  una conduzione specifica.

·        I gruppi nascono più facilmente e crescono meglio, se sono composti da individui diversi fra loro, ma non troppo.

Un gruppo è un campo plurale per definizione. La stessa numerosità suggerita (da 6/7 a 14/15), sta a indicare che è necessaria una certa varietà di risorse, opinioni, culture. Un gruppo composto da persone troppo simili manca della varietà necessaria a rendere plurale il campo. E’ quindi importante far nascere gruppi misti per sesso, per età, per professione, per cultura. I gruppi mono-dimensionali sono più difficili sia per i partecipanti sia per i formatori. E’ esperienza comune, in ambito formativo, che i gruppi di sole donne siano altamente competitivi; e i gruppi di soli uomini siano perlopiù depressi. I gruppi mono-professionali, avendo a disposizione un codice culturale, si attestano facilmente sulla difesa dell’astrazione, cioè usano la loro competenza comune per rallentare la nascita o la crescita del gruppo. I gruppi di giovanissimi tendono all’evasione o all’iper-drammatizzazione. I gruppi di soli anziani propendono per un quieto conformismo formale o tendono a vivere di ricordi. D’altro canto, anche l’eccessiva diversità può diventare un ostacolo per il  gruppo, specie se questa è concentrata in pochi soggetti. Un gruppo con un solo membro di colore, un solo anziano, una sola donna slittano facilmente verso processi di emarginazione. Un gruppo di lavoro con un unico membro anziano può sviluppare dipendenza o competizione. Se la diversità è equidistribuita, ma eccessiva (pensiamo per esempio ad un gruppo comprendente diverse nazionalità)  la nascita del gruppo è resa più difficile.

Anche qui non dobbiamo pensare a regole auree, ma a tecniche più o meno facilitanti. Dove non sia possibile equilibrare la diversità con l’omogeneità, si tratta solo di tenerne conto.

·        Un gruppo nasce e cresce meglio in un contesto chiaro e stabile.

Un bambino affronta meno rischi se nasce aiutato da mani esperte, in una stanza confortevole, avendo già due genitori presenti ed affiatati, un corredino adeguato, una organizzazione alimentare e sanitaria. Un gruppo nasce e cresce con più facilità se viene aiutato da un formatore esperto e fidato, se si incontra da subito in uno spazio riservato e confortevole, se l’organizzazione che lo genera (scuola, impresa, ente formatore, istituzione, ecc.) sa perché lo fa e si impegna ad accoglierlo,  se le attrezzature ed i sussidi necessari sono a portata di mano, se gli orari e le agende degli incontri sono prefissati. La nascita caotica, casuale, approssimativa di un gruppo non  garantisce  libertà e democraticità, ma  insicurezza ed angoscia.  La vera libertà e sovranità di un gruppo non si esprimono grazie all'assenza di un contesto, di confini determinati e risorse nutritive. Al contrario, contesto, vincoli e risorse costituiscono una spazio potenziale che il gruppo occuperà più facilmente. Questo spazio, una volta riempito, potrà essere modificato e ampliato a seconda delle esigenze del gruppo.  Facilitare la nascita di un gruppo implica intanto fornirgli un’apposita risorsa, formativa se il gruppo è di formazione, organizzativa se il gruppo è di lavoro. Un formatore o un coordinatore si devono prendere carico della nascita del gruppo nel ruolo di ostetrico. Tale ruolo richiede una presenza competente e strutturata, almeno dal primo incontro fino alla nascita del campo plurale. Mettere insieme un certo numero di persone e poi dire loro che devono arrangiarsi, è come far nascere un bambino su una macchina in corsa e poi abbandonarlo per strada. Le sue possibilità di sopravvivere e crescere sono molto ridotte. In verità questo è ciò che accade in molte situazioni di formazione o di lavoro, dove il gruppo viene usato come slogan. Insieme con il formatore o il coordinatore, occorre che il gruppo si veda assegnare uno spazio e i mezzi necessari per crescere.  E parallelamente, occorre attribuire un tempo adeguato e specifico per la nascita e la crescita del gruppo. Nessun gruppo si forma se non ha un tempo minimo (in media una decina di ore) previsto per lo stare insieme interagendo. Molti Corsi dichiarano di essere basati sul gruppo solo perché tengono dietro i banchi gli allievi, ma tutto il tempo è poi occupato da lezioni e conferenze. Molte organizzazioni chiamano gruppo quell’insieme di operatori che ascolta le prediche del dirigente. Perché il gruppo nasca, occorre un tempo riservato alla fasi di eplorazione, comunicazione e confronto reciproco. Queste fasi devono essere guidate, o almeno regolate da un formatore o coordinatore che faciliti e difenda i primi movimenti del neonato.

·        Un gruppo nasce e cresce più facilmente se l’ente che lo genera è consapevole e responsabile.

 E’ cruciale per un bambino nascere da genitori che si amano e che lo generano per gratificare loro stessi, ma anche per dare al figlio le migliori opportunità di realizzarsi. La generazione, come molti altri eventi esistenziali, deve essere il frutto di una  duplice spinta: egoistica ed altruistica. Un gruppo di lavoro viene generato da un’organizzazione di produzione o di servizi, un gruppo di apprendimento viene generato da un ente formativo. Che i genitori del gruppo lo progettino per soddisfare propri bisogni non è ingiusto né immorale. Lo diventa se i bisogni del gruppo vengono negati. Il paradosso è che senza l’altruismo, anche l’egoismo resta insoddisfatto. Raramente chi genera un figlio o un gruppo per meri motivi egoistici, trova soddisfazione.  I figli si ribellano e i gruppi funzionano male. Occorre dunque che l’organizzazione produttiva, di servizi o di formazione che generano un gruppo di lavoro o di formazione, pensino anche accuratamente in termini altruistici. Offrendo al nascituro le migliori condizioni per crescere, soddisfare le sue esigenze e perciò anche le esigenze dell’organizzazione generante. I motivi egoistici per cui frequentemente i gruppi vengono generati, sono tanti. Citiamo i seguenti, peraltro simili a quelli che presiedono la generazione di un figlio. Si fa nascere un gruppo (o un figlio):

ü      per conformismo (lo fanno tutti, è di moda, è democratico, si deve, non vogliamo sembrare ingenerosi o antiquati, mi sentirei diverso se non lo facessi)

ü      per accontentare qualcuno (lo vogliono i parenti, i sindacati, i membri del potenziale gruppo, il direttore generale, il mio avversario, l’opinione pubblica, è un premio per chi ne farà parte)

ü      per fare un torto a qualcuno (il mio contendente, il parente che vuole l’eredità, il mio vice che minaccia la mia autorità, è una forma di punizione per i membri)

ü      per scopi poco nobili (farmi sposare, avere un’eredità, costa meno fare un gruppo, il gruppo insabbierà)

ü      per usarlo in futuro a propri scopi (un figlio continuerà la mia impresa, un gruppo metterà in difficoltà il collega)

ü      per distrarre il contesto da un problema (un figlio sana il conflitto col coniuge, il gruppo coprirà le mie inadempienze, un gruppo vi terrà occupati)

ü      per delegare una propria responsabilità (non so dirigere i collaboratori quindi facciamo un gruppo; non ho preparato la lezione, facciamo lavoro di gruppo; se sono incinta, non sarò carcerata).

Essendo così frequenti le motivazioni improprie che presiedono alla nascita di un gruppo, chi ha il ruolo ostetrico -formatore o coordinatore- deve porre la massima attenzione ed il massimo impegno nel chiarire e modificare le intenzioni del genitore prima del concepimento, durante la nascita e la crescita. In caso contrario, le intenzioni improprie o egoistiche influiranno negativamente sul gruppo, aumentando il lavoro che dovrà fare per esistere e svilupparsi, proprio come accade ai neonati.

6.2. Il contratto.

Abbiamo già detto dell’importanza del consenso responsabile dei membri di un gruppo. Questo punto non viene sottolineato mai abbastanza, e molte delle fragilità dei gruppi derivano appunto da lacune o errori relativi a questo aspetto. Un gruppo è sempre un insieme volontario. Esso è il frutto di un patto continuamente rinnovato. Possiamo dire che il piccolo gruppo è l’unica aggregazione umana che vive solo nella libertà delle sue appartenenze.  La famiglia è codificata da leggi, e resta tale di fronte a qualunque modalità di funzionamento. Può funzionare bene o male, ma esiste aldilà e al di sopra delle sue vicende storiche: anche un divorzio o un annullamento non sopprimono i legami genitori-figli. Ogni organizzazione-compreso lo Stato- è sempre un’aggregazione strutturata, tenuta insieme da interessi e legami cogenti, di ordine normativo o economico. Essa resta tale anche se l’appartenenza dei membri è bassissima, se la loro partecipazione è inesistente, se assume le più diverse configurazioni. Solo l’estinzione, pacifica o violenta, può chiudere la vita di un’organizzazione. La comunità territoriale è simile in questo alle organizzazioni. La sua vita è decretata per via normativa e burocratica, e sussiste con ogni tipo di funzionamento.  Il gruppo invece, se perde alcuni elementi basici, perde la sua natura. Perché il gruppo, che in ciò è l‘aggregazione umana più atipica, ha come carattere ineludibile la soggettività delle sue regioni  e dell’ insieme. Un gruppo che oltre una certa soglia nega, comprime, reprime, la soggettività dei suoi membri, non è solo un gruppo malfunzionante: cessa di essere un gruppo. Un gruppo le cui relazioni interne non sono interdipendenti, nel quale l’appartenenza non è sentita o che non sia fondato su comuni finalità si può solo definire massa, folla, aggregato casuale,  assembramento,  capannello. L’insieme dei soggetti che viaggiano sullo stesso tram o che si trovano nella sala d’attesa del dentista non costituiscono un gruppo. I lavoratori che operano nello stesso ufficio o gli operai che si affannano intorno alla stessa macchina, non è detto che siano un gruppo. Le reclute inserite nello stesso reparto militare, i massimi dirigenti dello stesso partito, il comitato di crisi che attornia il Presidente, la classe della Scuola Superiore: non sono necessariamente da considerare gruppi. Insomma, l’assembramento non è affatto un carattere sufficiente della gruppalità. Non è neppure un carattere necessario, perché esistono gruppi concreti i cui membri si riuniscono o si incontrano solo raramente. Ciò che definisce primariamente un gruppo è un consapevole e sempre rinnovato sentimento di appartenenza ad una entità percepita come insieme super-individuale. La esistenza diffusa fra i membri di un  sentimento del “noi” è la spia della esistenza del gruppo. Sono importanti i fini comuni, come lo sono le relazioni di interdipendenza, ma decisiva è la centripetazione, la presenza di un vissuto dell’insieme, l’accomunamento emotivo. Il sentimento della “noità” è insieme l’origine e l’effetto della comunione dei fini, dell’interdipendenza delle relazioni, dell’appartenenza. E tale “noità” dipende dal seguente circolo virtuoso:

soddisfazione

 

potere
>>>>

libertà di scelta

 

responsabilità

<<<<

Il cerchio sopra disegnato indica un circuito senza inizio o fine. La catena libertà-responsabilità-potere-soddisfazione può iniziare in ciascun nodo e proseguire all’infinito ciclicamente. Per motivi espositivi, iniziamo col sottolineare l’elemento della libertà di scelta nell’aderire al gruppo. La descrizione delle difese  che si attivano fisiologicamente in ogni stadio di ogni gruppo, suggerisce che il cambiamento dell’equilibrio quasi stazionario di un campo non può che avvenire con la collaborazione attiva del soggetto. Nessuno è cambiabile in modo coattivo. Il soggetto è il doganiere del suo territorio e nessuno può entrarvi, senza il suo consenso e la sua cooperazione. Le fantasie di cambiamento indotto con la forza o con tecniche sofisticate, derivano dal fantasma di onnipotenza dell’operatore. La trasformazione di un campo è la risultante delle forze esterne e di quelle interne, che si alleano fra loro. Certi mutamenti, che  osservati dall’esterno, sembrano indotti da manipolazioni, da traumi, da misure coercitive, in realtà sono il frutto di una collusione attiva del campo soggettivo. Il soggetto cambia se, e solo quanto e dove, vuole cambiare. Oppure non si tratta di cambiamento del campo, ma del comportamento episodico.  Per esempio, le persone tenute nei campi di concentramento, o in ostaggio, o sotto la minaccia di punizioni, o raggirate, possono mettere in atto i comportamenti imposti, ma solo finché il pericolo o la minaccia persistono. I comportamenti adottati non entrano a far parte stabilmente del campo del soggetto coartato, a meno che questo non sia in qualche modo ricettivo. L’idea che esistano pratiche organizzative o formative “violente” che possono danneggiare i gruppi o i loro membri appartiene a forme di onnipotenza paranoide. Mezzo secolo di esperienze nei gruppi, ha definitivamente dimostrato che nessun individuo e nessun gruppo cambia, se non lo vuole almeno un po’. Il lavoro del cambiamento nei gruppi di lavoro o di apprendimento è una danza collettiva, le cui figure si realizzano solo attraverso un armonioso consenso. Per ottenere un cambiamento occorre che si alleino tutte le forze presenti che spingono verso il nuovo, contro tutte le forze che resistono. E tali forze nel gruppo non sono rappresentate da singoli membri, ma da singole regioni interne a ciascun membro. Ogni membro del gruppo, come abbiamo già detto, è ambivalente. L’idea che si possano stabilmente dividere gli innovatori da una parte ed i conservatori dall’altra, è un riduzionismo ideologico, che i fatti hanno sempre smentito. Essenziale è perciò che prima, durante e (periodicamente) dopo la nascita di un gruppo, sia garantita una libera scelta di appartenenza, da parte di ogni membro. In termini concreti ciò significa stipulare un patto esplicito fra i membri già durante la fase di reclutamento, poi durante i successivi incontri. Tale patto dovrà poi essere rinnovato periodicamente, e tale rinnovo sarà la conferma della vitalità del sentimento del “noi”. L’operatore, che genera e supporta la nascita del gruppo, può provvedere a questo imperativo tramite questionari, adesioni da sottoscrivere, colloqui individuali e/o di gruppo, verbali di firmare, impegni cui aderire o compiti da svolgere. Non ha importanza il mezzo, purchè sia chiaro l’obiettivo: ottenere una adesione libera e responsabile.

Il termine responsabilità (che significa capacità di rispondere)  è il secondo nodo del circolo virtuoso.  Una scelta libera porta con sé la responsabilità delle conseguenze. La irresponsabilità è anche il regno della sottomissione.  Un patto di adesione al gruppo accettato liberamente, sia pure nell’ambivalenza, impegna ed insieme garantisce la possibilità di rispondere di se stesso come parte ma anche dell’insieme. L’entrata in un gruppo implica per ogni membro l’assunzione di responsabilità dell’intero. In un gruppo è impossibile affermare “io non c’entro”, a meno di andarsene definitivamente. Ciò che l’insieme dice o fa, appartiene alla responsabilità di ciascun singolo membro. Il successo, la bellezza, la serietà di un gruppo sono il successo, la bellezza e la serietà di ogni membro. Le lacune, le colpe, gli errori e gli orrori del gruppo sono le lacune, le colpe, gli errori e gli orrori di ogni membro. Non solo il singolo è chiamato ad aderire al gruppo per libera scelta, ma nel contempo è chiamato a rispondere del gruppo, assumendosi la responsabilità della sua nascita e crescita, e  l’impegno di rispondere alle esigenze del gruppo come alle proprie.

Il terzo nodo del cerchio è il potere. Questo termine ha diverse accezioni, ma molte correnti di pensiero ne evidenziano solo quelle negative. Il potere è visto da molti come dominio, possesso, possessione, controllo, potenza. In tali accezioni è naturale uno stigma negativo.  Ma il potere è anche possibilità, potenziale, potenziamento. Potere è il diametro di un movimento nello spazio; è il terreno della competenza, intesa come capacità e come spazio riservato di responsabilità. Il gruppo è il luogo dove ogni singolo ha il potere di esprimere i bisogni e le potenzialità, ricercare il possibile, potenziare le proprie risorse. Senza questo potere non vi è responsabilità. D’altronde, nessuna potenzialità espressa è esente dalla responsabilità verso ciò che concorre a produrre. Nessuno può essere chiamato a rispondere  di ciò che non è stato anche in suo potere. Anche in suo potere, perché nel gruppo questo non può che essere condiviso. Fra l’onnipotenza e l’impotenza della singolarità, il gruppo si pone come spazio di potere realistico e partecipato.

La quarta voce del cerchio è la soddisfazione. Intesa come riempimento del vuoto della singolarità, come risposta del gruppo ai propri bisogni e desideri, o come espressione piena delle proprie risorse nel gruppo. Senza bisogni da soddisfare o desideri da realizzare, perché il singolo dovrebbe sottoscrivere un libero contratto di partecipazione? D’altra parte, nessun contratto di appartenenza regge a lungo senza risposte soddisfacenti ai bisogni e desideri degli attori.

Chi si pone come operatore ostetrico di un gruppo deve dunque saper stipulare (e rinnovare costantemente) un patto con e fra i membri, che si fondi sulla libera scelta, la responsabilità, il potere condiviso e la soddisfazione di bisogni o desideri.

6.3. Il tempo: durata e frequenza

La creazione di un dispositivo implica la sua collocazione al centro di coordinate spazio-temporali. La nascita di un essere umano vede le coordinate spazio e tempo, come un’eredità e come un destino. Nasciamo nel posto scelto dai genitori e viviamo per un arco di tempo che ci è ignoto.  Un gruppo inteso come dispositivo deve godere di un disegno temporale scelto con intenzionalità. Ciò non vieta che poi il gruppo scelga diverse dimensioni temporali nelle quali vivere, ma consente una certezza di partenza. Il giorno del primo incontro, la cadenza dei successivi e la durata di ogni riunione sono tre elementi importanti. Il giorno del primo incontro va prefissato, in modo da consentire a tutti i membri designati di essere presenti, con adeguato anticipo.  La compresenza simultanea di tutti i membri potenziali è un fattore importante per accelerare la fase natale e per prevenire vissuti di emarginazione. Chiunque sia  arrivato ad un incontro di gruppo, specie se questo è nuovo, con un ritardo anche breve, ha sperimentato uno sgradevole sentimento di esclusione. Bastano pochi minuti di ritardo per sentirsi “fuori” e percepire il gruppo come già coeso ed emarginante. Invece di iniziare con una sensazione di difficoltà collettiva condivisa (siamo tutti curiosi e in imbarazzo), il gruppo diventa immediatamente un “voi” o un “loro” diverso da “io in ritardo”. Il ritardatario fantastica di chissà quali intese già raggiunte. Il gruppo da parte sua vede nel ritardatario la possibile seccatura di ricominciare daccapo. Se poi i ritardatari sono parecchi, si diffonde subito una sensazione di scarsa importanza dell’intero gruppo. Sono curiosi i comportamenti messi in atto in situazioni simili. Il ritardatario si sente autorizzato a stare alla finestra, per non disturbare ma anche per  esonerarsi del primo inevitabile disagio. I puntuali sono portati a non aggredire il ritardatario con domande per non imbarazzarlo, ma nel contempo evitano di ripetere tutto il rituale iniziale per non perdere tempo. Il risultato per tutti è una sorta di attesa. A volte qualcuno si lancia in frasi del tipo: ”finora ci siamo presentati, ora tocca a te”. Dimenticando che la sua autopresentazione diventa una sorta di penitenza da pagare per il ritardo, perché non è accompagnata dalla ri-presentazione degli altri. Il ritardo provoca inevitabilmente una aggressività serpeggiante sia nel gruppo che nel ritardatario. L’assenza di qualcuno al primo incontro è un fattore ancora più ostacolante. I vissuti di aggressività, colpa, emarginazione sono ancora più facili, ma ad essi si aggiunge la concreta difficoltà da affrontare al secondo incontro. Il problema viene a volte risolto con la creazione di un ruolo marginale stabilizzato: l’assente diventa un’appendice più o meno invisibile. A volte invece il nuovo arrivato, per recuperare il terreno, mette in atto comportamenti iper-sociali: attira l’attenzione, occupa più spazio degli altri, cerca di farsi accettare con mezzi sopra le righe.  Il che spesso produce un effetto contrario. Se gli assenti alla prima riunione sono più di uno, l’incontro rischia di essere considerato inesistente da tutti, con la conseguente dispersione della motivazione. Oppure si attivano due sottogruppi che entrano in conflitto: i “vecchi” ed i “nuovi”, con un pregiudizio per la costruzione di un campo comune. Per tutti questi motivi occorre fare ogni sforzo per garantirsi la presenza di tutti i membri, alla stessa ora fissata per il primo incontro. Ove ciò risultasse difficile, è meglio spostare in avanti la data di convocazione, prima di vedersi fisicamente. Se i ritardi e le assenze invece sono una sorpresa, va valutata l’ipotesi di non aprire la riunione. Se entrambe le cosa sono impossibili, va tenuto conto nel prosieguo, che il gruppo è nato con questo handicap.

Il secondo elemento temporale riguarda il calendario, cioè la quantità e cadenza degli incontri. Qui naturalmente la variabilità è massima e dipende dalla natura del gruppo e dai vincoli esistenti. Tuttavia possiamo sottolineare il fatto che la nascita e lo sviluppo di un campo plurale, richiede un tempo apposito e riservato. Un tempo che non comprende tutte le situazioni nelle quali il gruppo è riunito, ma che conteggia solo le ore spese per lavorare come insieme. E’ possibile infatti che un gruppo venga riunito per ascoltare una comunicazione, per  realizzare compiti individuali nello stesso momento e luogo, per far incontrare i membri in coppie o sotto-gruppi operativi, per incontrare altri gruppi: cioè per espletare compiti non gruppali, che potrebbero essere eseguiti anche dai singoli in momenti diversi. Il tempo del gruppo è il tempo speso in attività che impegnano il campo plurale, il gruppo come insieme, l’intero in quanto tale e che sarebbero diverse se fossero realizzate dai singoli membri. In via del tutto empirica, segnaliamo che per la costituzione di un gruppo come insieme, occorre un tempo minimo astratto di circa 10 ore. Il dato varia enormemente da gruppo a gruppo, e va preso come vago riferimento. Dieci ore sono in molti casi il tempo minimo  necessario perché avvenga una sufficiente esplorazione interpersonale, la attivazione di relazioni interdipendenti, la creazione di un codice comunicativo e  di alcuni ruoli, e una regolazione del funzionamento collettivo. Abbiamo detto che in questo conto vanno inseriti solo i tempi spesi in attività strettamente gruppali. Aggiungiamo che il conto esclude le occasioni informali di contatto. Alcuni pensano di accelerare la costituzione di un gruppo, facilitando i contatti interpersonali o plurali al di fuori degli incontri formali previsti. Diciamo chiaro che questa posizione non solo è inutile ma è assai dannosa. L’ideale sarebbe che, quando il gruppo non è formalmente riunito, i membri non avessero alcun contatto. I contatti fuori dal gruppo, lungi dal favorire il sentimento del “noi”, stimolano le alleanze di coppia, i sottogruppi, i pettegolezzi, le decisioni improprie. Fungono da spazi alternativi di sfogo dei problemi gruppali. Se i contatti extra gruppo non sono eliminabili, occorre sancire in modo esplicito che si tratta di relazioni private, nelle quali ogni dichiarazione o decisione deve restare estranea alle vicende del gruppo. Delle questioni che riguardano il gruppo, si parla solo quando il gruppo è formalmente riunito. I tempi informali non vanno in nessun modo considerati del gruppo, anzi spesso risultano dannosi per l’insieme. Naturalmente esula da questo discorso il caso in cui è previsto che il gruppo si riunisca per un’occasione ludica, formalmente inserita nel calendario o decisa dal gruppo stesso. Se un iter formativo prevede un seminario residenziale, i momenti informali qui possono considerarsi di gruppo. Se un gruppo di lavoro decide una cena collettiva, il tempo speso può essere inteso come del gruppo. E’ importante però valutare se il tempo informale viene  veramente vissuto come gruppale. Non è raro infatti che si creino ambiguità, per cui qualcuno non capisce o non è informato se si tratta di un impegno di gruppo o di una opzione discrezionale. Se il tempo informale è previsto nell’iter del gruppo va comunicato con chiarezza. Se il gruppo decide di usare un tempo informale, occorre garantire che la decisione sia presa gruppalmente.

E’ a questo punto importante dire qualcosa circa il calendario, cioè la distribuzione delle ore per il gruppo. Ovviamente anche questo elemento è suscettibile di grandi variazioni in base alla natura ed ai vincoli del gruppo. Un gruppo di apprendimento si può anche incontrare ogni giorno. Un consiglio di Amministrazione si incontra 3 volte l’anno. Occorre tenere conto tuttavia che ogni incontro di gruppo in fase neonatale sconta un problema che viene chiamato “riscaldamento”. Solo un gruppo maturo è capace di entrare in situazione, cioè nel  campo qui ed ora, con immediatezza. I gruppi neonati richiedono un tempo di acclimatamento per attivarsi, come un motore freddo che stenta ad avviarsi. Tale tempo di attesa è maggiore quanto più ampia è la distanza fra un incontro e l’altro. Per ciascun membro il problema è quello di uscire dalle appartenenze dei giorni intermedi,  per entrare psicologicamente in quella richiesta dal gruppo.  Solo dopo che il campo plurale in questione è diventato un polo di attrazione emozionale, diventa più facile entrarvi. Nelle fasi iniziali, a bassa forza coesiva e centripeta, il re-investimento periodico nel gruppo richiede alcuni minuti. Il problema ha qualche risvolto anche relativamente alla durata di ogni incontro. Se un incontro dura solo 90 minuti, dei quali 20 o 30 vanno impiegati per il riscaldamento, occorre allora: allungare i tempi di riunione magari suddividendoli con un intervallo; diminuire i compiti previsti per ogni riunione; ravvicinare o aumentare gli incontri.

Per quanto concerne la durata degli incontri-riunioni, è accertato che la curva dell’attenzione decresce vistosamente, in soggetti adulti normali, intorno ai 90 minuti. Ciò implica che un incontro di gruppo deve durare meno di due ore, e che, ove fosse necessario più tempo nella stessa giornata, si deve stabilire un intervallo di circa 30 minuti ogni 90/120 di lavoro. Intervallo che, per essere efficace, non deve essere dedicato ad altro che al relax ed allo svago. Le riunioni interminabili sono meno produttive, perché affaticano e mettono i membri in stato di disagio. Particolare importanza assume la definizione a priori dell’ora di inizio e fine dell’incontro. L’abitudine di iniziare ad orario variabile, con ritardi anche di un’ora fra il primo membro che arriva e l’ultimo, mina alle fondamenta il senso di appartenenza e l’equidistribuzione dei contributi che il gruppo richiede. Quando ciò si verifica in modo ripetuto, siamo in presenza di una dinamica difensiva, di sottrazione o di delega. Analogamente, l’indeterminatezza dell’ora di chiusura della riunione impedisce i singoli di pianificare il proprio tempo e stimola comportamenti individualistici di sottrazione: ciascuno è autorizzato ad andarsene quando vuole. Senza contare che, se non esiste un termine definito, accade spesso che l’incontro continua finché fa comodo a qualche membro in posizione di maggior potere.

6.4. Lo spazio fisico e umano.

Lo spazio è la seconda coordinata cruciale. Esso è un contenitore psicologico, designa e circoscrive il campo plurale, rappresenta il territorio del movimento e del potere del gruppo. La scatola influenza o addirittura determina la forma di ciò che contiene. Lo spazio dunque va ordinato come elemento intenzionale del gruppo-dispositivo.

 Il locale della riunione deve essere accogliente e tranquillo, in modo che i partecipanti non siano distratti da rumori, passanti, telefoni che squillano (ovviamente i telefoni portatili devono essere rigorosamente spenti per tutta la riunione). Le sedie, oltre ad essere comode, devono essere collocate in cerchio, affinchè tutti i partecipanti possano vedersi in faccia l’un l’altro. La presenza di un tavolo è giustificata se è previsto che si debba scrivere o compiere operazioni manuali. In caso contrario, è meglio che non si frappongano ostacoli visivi fra i corpi dei partecipanti. Un corpo coperto per metà da un tavolo, invia comunicazioni dimezzate. Naturalmente  il lavoro di gruppo prevede attività di scrittura o creative, occorre che lo spazio sia attrezzato ad hoc, con carta, penne, colori, cartelloni murali, ecc.. Una certa importanza riveste la stabilità dello spazio. Un gruppo che si riunisce regolarmente, investe emotivamente lo spazio, come una “casa” rassicurante e familiare. Ove è possibile, occorre riunire il gruppo sempre nello stesso spazio, in modo che questo diventi un elemento favorente la coesione, invece che estraneo o ostile.

L’ordine del giorno è un altro elemento essenziale, che delimita lo spazio del compito di ogni inconto-riunione (v.Cap.4.1.). Ogni incontro deve avere un perché chiaro, esplicito, comunicato in anticipo. Nei gruppi di lavoro l’odg indica gli argomenti da trattare, le decisioni da prendere, le operazioni da compiere. Nei gruppi di apprendimento l’odg indica il programma dell’incontro. Le riunioni dove l’ordine del giorno non esiste, non è esplicitato con chiarezza, o non è comunicato in anticipo cadono facilmente in preda alla confusione. Le comunicazioni diventano dispersive, ripetitive, improvvisate. Uno degli errori più comuni è la stesura di un ordine del giorno comprendente un numero eccessivo di argomenti. E’ importante che l’agenda dei lavori sia commisurata al tempo prefissato. O si riduce il numero dei contenuti su cui lavorare o si aumenta il tempo della riunione, nella stessa o in giornate successive. Può succedere che l’agenda preveda l’esame di materiale documentale: relazioni, normative, dati statistici, lettere, e così via. Buona regola è quella di inviare a ciascun membro la documentazione, prima dell’incontro. La lettura individuale consente un risparmio del tempo della riunione e favorisce uno scambio di comunicazioni già meditate e documentate in precedenza. Quando ciò non avviene, il lavoro di gruppo diventa penoso perché ciascuno parla sui contenuti senza essersi informato, oppure si ritualizza una lettura collettiva che occupa gran parte del tempo disponibile.

Naturalmente, una parte decisiva nel lavoro di gruppo è costituita dai partecipanti, che sono lo spazio umano del gruppo. Per quanto riguarda la quantità,  un gruppo non può mai avere un numero di membri superiore a 14/15, o inferiore a 6/7. Si tratta di un numeri convenzionali ed astratti, che possono anche variare in meno o in più, a certe condizioni. Tuttavia l’esperienza e la letteratura segnalano che un numero inferiore a 6/7 membri rischia una eccessiva povertà di risorse e di differenze. E’ possibile diminuire la quantità quando si tratta di lavori molto specialistici, con membri molto competenti. Ma in via ordinaria, un gruppo efficiente deve disporre di almeno 6/7 regioni per godere di un’adeguata pluralità. E’ possibile anche aumentare il livello di 14/15, quando un gruppo ha una lunga dimestichezza o vive situazioni particolarmente drammatiche. Tuttavia è evidente che sopra questa soglia, diventa difficile una equiditribuzione dei contributi e delle relazioni interne. Sopra la soglia dei 14/15 il campo gruppale tende a spezzarsi in sottogruppi, ciascuno dei quali funzione come aggregazione di appartenenza primaria. Questo fenomeno è facilmente osservabile in tutte le classi scolastiche con 20-25 elementi.

Importante è la composizione del gruppo,  di cui devono far parte solo i membri stabili. Un gruppo opera tanto meglio quanto più ha un’identità ed una composizione precisi. Un gruppo è lo spazio di un patto, di una convergenza, che distingue coloro che sono dentro da coloro che sono fuori. Può darsi una fase di formazione o nascita che si protrae per qualche tempo (fino a quando il gruppo non è costituito) nella quale alcuni membri se ne vanno e altri ne arrivano. Ma esiste un momento in cui il confine viene fissato. A partire da quel momento nessuno, per nessun motivo, ha diritto ad entrare nel gruppo, a meno di un’apposita decisione del gruppo stesso. Capi, osservatori, ospiti, passanti che intervengono nel gruppo senza un’esplicita richiesta ed autorizzazione dello stesso, fanno una violenza simile a quella di chi entra in una casa senza essere invitato. Gruppi che non difendono i loro confini, esprimono un basso livello di appartenenza e coesione. Il gruppo è uno spazio privato, dove solo i membri legittimi hanno sovranità. Diverso discorso riguarda i nuovi membri, che il gruppo può ammettere in ogni momento, sapendo però che ogni immissione nel campo gruppale provoca un’alterazione dello stesso e di ogni regione.

6.5. Le regole prefissate.

Oltre lo spazio e il tempo, un gruppo-dispositivo deve avere qualche regola prefissata di funzionamento. Anche qui vale il discorso della infinita varietà possibile, in base alla natura ed ai vincoli di ogni gruppo. Elenchiamo solo alcune delle regole valide nella più vasta tipologia dei gruppi. Dobbiamo dire che le trasgressioni a queste regole non vanno intese come deviazioni individuali da reprimere e punire. Coerentemente con la concezione del gruppo come rete di relazioni interdipendenti, le trasgressioni alle regole vanno interpretate e trattate come sintomi di difficoltà e problemi del campo. Invece di sancire, il problema è analizzare, discutere e capire i problemi esistenti, apportando i necessari cambiamenti.

·      Impegno alla presenza e partecipazione attiva

Implicito nel concetto di gruppo è la regola, liberamente accettata a priori da tutti i membri, del presenziare agli incontri e del partecipare attivamente a tutte le attività. La presenza è legata alla partecipazione e viceversa.  Quando il gruppo è abbastanza maturo, l’assenza di un membro è rara e solidamente giustificata. Peraltro in questi casi l’assenza è solo fisica, perché emotivamente chi manca si sente ugualmente partecipe, e il gruppo sente vicino anche l’assente. Questo legame percepito anche in assenza, si esprime con comportamenti diversi ma convergenti. Il membro assente:

ü   annuncia la sua assenza e si giustifica;

ü   affida a un altro membro il compito di esplicitare la sua posizione circa l’ordine del giorno;

ü   magari telefona durante la riunione, per mostrarsi vicino;

ü   si informa dell’incontro, dopo che è terminato;

ü   accetta in ogni caso ciò che il gruppo ha fatto o deciso in sua assenza

Il gruppo da parte sua:

ü   notifica a tutti i membri le giustificazioni dell’assenza;

ü   tiene conto delle posizioni dell’assente;

ü   rinvia decisioni particolarmente importanti o che riguardano l’assente;

ü   si impegna a informare l’assente del lavoro fatto.

La partecipazione attiva è una regola implicita. Essa si esprime con l’apporto di idee, la formulazione di domande, la presentazione di proposte: cioè attraverso contributi verbali. Ma può anche esprimersi mediante comportamenti e contributi non verbali: un atteggiamento di ascolto attento, una mimica ed una  postura partecipi, una serie di gesti cooperativi.

·      Il gruppo esiste solo nei tempi e negli spazi condivisi, e questi definiscono il gruppo a prescindere dal numero di partecipanti.

Abbiamo già accennato prima, della necessità di concepire il gruppo solo quando è riunito in tempi e spazi formalizzati o almeno condecisi. La regola serve a delimitare lo spazio ed il tempo del gruppo, dagli spazi e tempi dei singoli o di altri gruppi. Serve a rendere pubblico il momento del “noi”. Cosa succede quando il “noi” vede assenti uno o più membri ? Il gruppo è una entità autonoma, diversa dalla somma delle parti, perciò esso esiste qualunque sia il numero dei presenti. Un gruppo convocato dal gruppo o con il suo assenso, esiste come volontà collettiva. Decidendo o accettando una convocazione, il gruppo ha attivato uno spazio ed un tempo virtuali che vanno fatti vivere dai membri, ma non necessariamente da tutti i membri. Uno o più partecipanti possono avere avuto, fra un incontro e l’altro, vicissitudini personali tali da ostacolare la presenza. Ma  nessun caso personale può inficiare un campo plurale autonomo.  La regola quindi è che, se il gruppo si incontra nello spazio e nel tempo che ha scelto o condeciso, esso deve svolgere i suoi compiti con qualunque numero di presenti. Annullare tale regola significa: negare al gruppo la consistenza di realtà autonoma diversa dalle parti, affidare ad ogni singolo un potere di veto sull’intero, colpevolizzare ogni assente che diventa un elemento di paralisi. Stabilita la regola, entrano in campo il buon senso ed il sentimento di appartenenza collettiva. I membri presenti, ove si trattasse si svolgere un compito vitale per il gruppo, si faranno carico dell’insieme portandolo avanti anche in pochi. Ove invece si trattasse di un ordine del giorno non vitale, o per il quale la presenza di tutti è indispensabile, o anche solo migliorativa, i presenti possono dichiarare valida ed aperta la riunione e decidere immediatamente di concluderla, mettendo a verbale le ragioni della decisione.

·      Ciò che il gruppo decide, solo il gruppo può cambiare.

Questa è una regola aurea che tutela la sovranità del campo, sia sui singoli che sul contesto. Le trasgressioni a questa regola sono altrettante mine all’unità ed all’autonomia del gruppo. Una decisione presa dal gruppo non può essere trascurata o alterata da un singolo, nemmeno se questo singolo è il leader, il capo, l’autorità formale. Una decisione di gruppo impegna l’intero campo e tutte le regioni, anche assenti o dissenzienti, autorità compresa. E impegna anche verso l’esterno. Qualora una decisione risultasse da modificare per le mutate condizioni, il gruppo come insieme è l’unico che può farlo. Ogni comportamento o azione diversa dalla decisione presa dal gruppo, va considerata una trasgressione e trattata come sintomo di un malessere del campo. I comportamenti distanti da una decisione presa, richiesti da una emergenza, devono essere giustificati e ratificati dal gruppo come insieme. Naturalmente ci riferiamo a decisioni prese consapevolmente dal gruppo durante un incontro formale. Le decisioni implicite, gli orientamenti suggeriti da qualche membro, gli inviti a fare o no una certa cosa, anche se vengono seguiti da comportamenti che potrebbero far pensare a una decisione di gruppo, non hanno la stessa validità. 

·      I ruoli formalizzati vanno rispettati

Un gruppo presuppone sempre un certo numero di ruoli non formalizzati. Possono esistere uno o due leaders, dei ruoli gregari, uno o più capri espiatori, e svariati altri tipi di gruppo ciascuno dei quali è effetto e causa di aspettative non dichiarate. Questi ruoli impliciti sono in movimento e la loro stabilizzazione è una cristallizzazione del campo. Ma i gruppi comprendono spesso anche ruoli formali ed espliciti. Nei gruppi di apprendimento esistono almeno due ruoli di questo tipo: gli allievi che apprendono e il formatore che stimola o facilita l’apprendimento. Nei gruppi di lavoro esiste quasi sempre il ruolo formale del coordinatore o segretario. Oltre a questi ruoli, generalmente decisi prima della nascita del gruppo dall’ente genitore, ne esistono altri costruiti dal gruppo durante la sua crescita. Per esempio, un gruppo può distribuire ruoli operativi diversi, fra i quali  quello del delegato, quello del  contabile, quello dell’archiviatore. La regola è che i ruoli formalizzati, predecisi o decisi dal gruppo, vengano rispettati sia dal soggetto che li detiene sia dal gruppo nel suo insieme. L’allievo deve fare l’allievo, cioè deve tenere un ruolo rispondente alle aspettative legittime verso un soggetto che apprende: per esempio, non deve comportarsi da docente. Il formatore deve favorire l’apprendimento, non fare  l’amico o il secondino degli allievi. Il coordinatore deve coordinare e non comandare, il contabile deve amministrare e non fare il capo, il delegato deve fare il portavoce del gruppo e non di se stesso. Reciprocamente anche il gruppo deve rispettare i ruoli esistenti. E’ tipico l’errore di affidare ad un membro il ruolo di coordinatore di una riunione, per poi subito disattendere ai suoi richiami sull’ordine degli interventi. Come affidare ad un membro il ruolo di delegato e poi non dargli alcuna fiducia. Affidare o riconoscere un ruolo, significa concentrare in un singolo membro compiti specifici, dai quali il gruppo può e vuole esentarsi. L’aiuto al gruppo deriva dal riconoscimento pieno del ruolo affidato. Un ruolo affidato e poi non rispettato, depotenzia l’intero gruppo, oltre a deludere le aspettative del singolo detentore del ruolo.

·      Ogni incontro deve concludersi con un verbale/memoria.

     Nei gruppi di lavoro si parla di verbale o memorandum. Nei gruppi di apprendimento, esiste il registro, il rapporto del formatore, una audio/video registrazione. Il mezzo è meno importante dell’obiettivo, che è di fissare una documentazione di ogni incontro.

Ogni riunione arriva a conclusioni, prende decisioni, esprime confronti di cui è importante conservare una memoria storica. Nei casi più delicati si arriva ad un verbale, che riporta per intero o in estratto, i contributi verbali o i fenomeni più vistosi (per esempio gli applausi, le uscite dal gruppo, gli arrivi in ritardo, ecc.). In via normale è sufficiente una memoria sintetica dei contenuti affrontati e delle eventuali decisioni prese. Questo dispositivo riduce la possibilità che nel tempo insorgano equivoci, smemoratezze, diversità di interpretazione. La memoria dovrebbe essere scritta in tempo quasi reale, da un membro appositamente incaricato delle funzioni di segretario. Letta ed approvata da tutti i presenti, onde evitare che il compilatore travisi i fatti reali, la memoria viene archiviata in un contenitore consultabile da tutti i membri, e spedita ai membri eventualmente assenti all’incontro. Buona regola è quella di dedicare gli ultimi minuti dell’incontro a leggere la memoria e stabilire sede, data e ordine del giorno della successiva riunione.

·      Periodicamente è necessario dedicare tempo alla valutazione.

Regola importantissima nei gruppi-dispositivo: spendere periodicamente del tempo perché ogni membro esprima la propria valutazione, sulla riunione in particolare e sul gruppo in generale. Questa attività serve per monitorare il grado di soddisfazione e per evidenziare precocemente gli eventuali problemi emergenti. Naturalmente non occorre effettuare una simile valutazione per ogni incontro di 90 minuti, ma è buona regola farla ogni  360 minuti (equivalenti a 3 o 4 riunioni). Se questo lavoro di “specchio”  viene effettuato raramente o non viene effettuato per nulla, il gruppo sarà ben presto attraversato da un groviglio di problemi di cui sarà difficile trovare il bandolo.

Queste sono regole minimali, valide per un gran numero di gruppi, e in genere prefissate dall’ente genitore. Sembra consigliabile che il numero delle norme prefissate sia contenuto, per evitare di dare vita ad un gruppo caratterizzato più dalle repressione che dalla espressione. Oltre a queste regole, naturalmente sussistono tutte quelle in vigore nella legislazione nazionale: non occorre ribadire che sono proibiti il furto, le molestie sessuali, l’aggressione fisica, lo spaccio di sostanze illegali.   Infinite però sono le norme che possono essere fissate in itinere dal gruppo stesso. Dal divieto del fumo o di bevande alcooliche a quello dell’uso di un linguaggio scurrile; dall’obbligo di un particolare abbigliamento alle sanzioni per certi comportamenti; dal divieto di usare registratori, macchine fotografiche o cineprese all’obbligo del segreto su quanto avviene o viene detto nel gruppo. Come nella crescita dei singoli esseri umani, vale qui il principio che un eccesso di regole è sintomo di insicurezza, sfiducia, e ossessività. Ed in via generale si deve tener conto del principio che una regola ha senso solo se chi la emana è in grado di applicarla. A questo proposito, ricordo il caso di un’équipe di operatori di una comunità terapeutica per tossicodipendenti. Preoccupata che gli utenti, all’ammissione, portassero con sé sostanze stupefacenti, l’équipe discusse per quasi un giorno intero e poi decise di rendere obbligatorie le perquisizioni corporali al momento della entrata in comunità.  La decisione fu unanime, ma quando il consulente invitò il gruppo a organizzarsi coerentemente, indicando gli operatori che dovevano assumere il ruolo di “perquisitori” , tutti i membri si dichiararono indisponibili. La decisione fu dunque annullata per inapplicabilità.

6.6. L’evaluation

Un gruppo dispositivo si caratterizza per l’intenzionalità. Non è un gruppo che viene generato perché viva e basta. Esso viene formato da un genitore che ha particolari obiettivi, i quali sono la prima ragione della nascita del gruppo. La ragione di vita di questo tipo di gruppo risiede nel suo impegno a soddisfare, almeno in parte, gli obiettivi per cui è nato. Monitorare l’andamento ed i risultati periodici del gruppo è una funzione cruciale. Chiamiamo evaluation [1] il processo di verifica e valutazione del processo e dei risultati di un gruppo-dispositivo. In termini diversi, possiamo affermare che solo un gruppo sottoposto a evaluation può considerarsi un dispositivo intenzionale. La possibilità di verifica di un gruppo implica che questo abbia degli obiettivi espliciti e operazionalmente osservabili. Invece le sue possibilità di valutazione dipendono dalla esistenza di un misuratore consensuale. Avere obiettivi misurabili convenzionalmente è ciò che caratterizza un dispositivo tecnico da un organismo. L’organismo vive per finalità naturali. I suoi obiettivi, se esistono, sono stabiliti dallo stesso e il suo valore è incommensurabile. Un dispositivo, un artefatto, una tecnica sono oggetti pre ed etero finalizzati, ed il loro valore deve essere misurabile.

L’evaluation consiste nella ricerca puntuale di dati che indichino il grado di funzionalità del sistema (quindi anche di soddisfazione degli attori). Essa si realizza anche nella raccolta di informazioni relative ai risultati prodotti dal gruppo. Infine, essa prevede una attribuzione di valore ai dati raccolti. Le prime due fasi sono di verifica, la terza di valutazione. Le tre fasi non sono in sequenza temporale, ma interdipendenti.

Intanto è indispensabile allestire un pannello di controllo che indichi in itinere l’efficienza del gruppo. Questo monitoraggio consente di apportare le necessarie variazioni strada facendo, onde evitare la constatazione finale del fallimento. Un gruppo dispositivo ha una struttura, dei processi e delle dinamiche più o meno funzionali al suo obiettivo. Identificare precocemente i settori critici e intervenire su essi per migliorarne la funzionalità, è essenziale. Un operatore competente è appunto chi possiede il bagaglio necessario a fare un’adeguata manutenzione del dispositivo gruppale. Il pannello di controllo del processo opera come il cruscotto di un veicolo. Esso deve possedere spie di allarme quando gli indicatori prescelti si avvicinano alla soglia di criticità. Ciò implica scegliere indicatori significativi. Per esempio, monitorare in un’automobile le condizioni atmosferiche è superfluo, mentre diventa decisivo farlo su un airbus. In un gruppo, gli indicatori possono anche variare a seconda della sua natura: tasso di presenza o partecipazione, quantità di comunicazioni, clima psicologico, regolazione, possono essere usati in modo aggregato o disaggregato minuziosamente. Un indicatore certo importante è quello della soddisfazione dei membri. Come abbiamo già detto nel Cap.4, è essenziale che un gruppo soddisfi i bisogni e i desideri di ogni singolo membro. Ogni diminuzione in itinere del grado di soddisfazione dei membri è una spia del possibile malfunzionamento del gruppo, almeno come campo plurale, se non come gestore del compito assegnatogli. Inoltre, questo indicatore segnala eventuali processi degenerativi in atto: l’insoddisfazione può servire da anticipazione di una crisi relativa al gruppo o al compito. Ogni indicatore stabilito, richiede la scelta di mezzi appropriati di rilevazione. Se vogliamo conoscere i ruoli esistenti nel gruppo o il livello di soddifazione dobbiamo usare strumenti appositi. La febbre si misura col termometro e la pressione con lo sfigmomanometro. Per i gruppi esistono già strumenti collaudati, ma la loro varietà è tale che spesso un indicatore richiede la messa a punto di strumenti di rilevazione originali. Che possono essere orali, visivi, cartacei, a seconda della situazione: colloqui e interviste, questionari e griglie di osservazione, registrazioni audiovisive, materiale documentario.

Tutte le spie del pannello di controllo indicano le aree di più urgente manutenzione, se sono precostituite con dei misuratori di soglia (minimo-massimo). In altre parole, serve a poco sapere se il grado di soddisfazione è del 70%, se non abbiamo stabilito in precedenza se tale valore siano o no critico. Come in un automobile, la spia della benzina si accende quando il serbatoio raggiunge la soglia minima prestabilita. E questa soglia è prescelta in modo da lasciare al guidatore un certo numero di chilometri per rifornirsi (le auto ad alto consumo avranno una soglia più alta delle utilitarie). La scelta della soglia è discrezionale e si basa su una convenzione. I progettisti si accordano sul fatto che per una utilitaria la soglia sia 10 litri, ma nulla vieterebbe di stabilire il livello di criticità a 9 o 12 litri. Questo è il problema della valutazione, che è sempre convenzionale. La verifica senza una valutazione è muta; la valutazione senza verifica è cieca.

In secondo luogo è essenziale stabilire indicatori di valutazione dei risultati che il gruppo si è prefissato. Qui il problema è analogo al precedente: occorrono indicatori, strumenti di rilevazione, soglie di criticità. In base alla natura dei risultati attesi questa evaluation può prevedere una comparazione prima-dopo, oppure limitarsi ai risultati intermedi e conclusivi, oppure ancora richiedere controlli a distanza di tempo. Il gruppi infatti può avere l’obiettivo di modificare qualcosa, ed allora occorre verificare la variazione intercorsa fra lo stato iniziale e finale di quel qualcosa. Se invece il gruppo ha come obiettivo un prodotto da realizzare, può essere sufficiente sottoporre a evaluation il risultato a lavoro ultimato. Quando il gruppo ha per obiettivo qualcosa che deve persistere nel futuro (come un apprendimento) allora è opportuno aggiungere un’ evaluation distante un certo tempo dopo la fine della performance.


[1] Il termine inglese è usato per carenza di un corrispondente termine italiano. Su questo tema cfr. il Cap.VI (pagg.161-173) del volume Contessa G., La formazione, CittàStudiEdizioni, Milano, 1993; ed anche il Cap.IX (pagg.207-221) del libro di AA.VV., La formazione psicologica, CittàStudiEdizioni, Milano, 1994.

 

Check list per l’organizzazione di un gruppo-dispositivo. Da usare prima di ogni ciclo di incontri.

1.        TEMPO

  • È fissato l’orario di inizio e fine ?
  • La durata prevista è consona a mantenere buoni livelli di efficienza?

2.        SPAZIO

  •  Lo spazio del gruppo è confortevole e accogliente?
  • Lo spazio del gruppo è riservato e tranquillo?
  • Sedie, tavoli, attrezzature sono disposti adeguatamente?

3.   ORDINE DEL GIORNO

  • L’OdG è stato comunicato a tutti in anticipo?
  • L’OdG è chiaro e coerente col tempo disponibile?
  • La eventuale documentazione allegata all’OdG è completa?

4.        PARTECIPANTI

  • Sono stati invitati tutti i membri stabili e solo loro?
  • Eventuali altri invitati sono stati decisi dal gruppo?

5.        VERBALE O MEMORIA

  • Chi è incaricato di stendere verbale o memoria?
  • Verbale o memoria sono stati letti ed approvati?
  • Verbale o memoria sono stati inviati a tutti gli assenti?
  • Dove può essere consultato il verbale?
  • Si sono decisi data, sede, OdG del prossimo incontro?

6.        VALUTAZIONE

  • Il gruppo ha dedicato qualche minuto ad una valutazione della riunione e del gruppo stesso?